mercoledì 1 agosto 2007

DISTURBARE IL MANOVRATORE
di
Mauro Nieddu
Il sogno della smilitarizzazione dell’arcipelago della Maddalena è durato davvero poco: nemmeno il tempo di prepararsi alla partenza delle navi Usa che subito ci si appresta a trasformare l’Isola in un fortino, un sinistro arcobaleno di zone verdi, gialle, rosse. I colori che a Genova sono stati tutti omologati al rosso del sangue dei manifestanti brutalizzati dalle forze dell’ordine.Un altro G8 in Italia dunque, una nuova sfida di mobilitazione per la sinistra che ancora si considera antiliberista e per i movimenti. E in Sardegna?Certamente fa male vedere la propria terra trasformata in un’enorme campana di vetro per fare da palcoscenico alle stucchevoli esibizioni degli auto-proclamati grandi del mondo; sarebbe però un grosso errore se leggessimo l’evento in chiave semplicemente localistica. La sinistra sarda deve cogliere questa occasione per integrarsi pienamente nella discussione sulle crisi globali di cui il periodico vertice informale dei paesi più industrializzati è simbolo. Un vertice la cui popolarità sembrava in inarrestabile declino solo qualche anno fa, al punto da metterne in discussione la stessa esistenza: a che serve una manifestazione che è essenzialmente una vetrina, marketing politico insomma, nel momento in cui suscita solo proteste ?Tuttavia il riflusso dei movimenti ha permesso a questa pseudo-istituzione di passare la crisi e ripresentarsi nel nostro paese in un clima profondamente diverso da quello del 2001. Questa situazione consente a questi incontri al vertice di raggiungere lo scopo costitutivo per il quale sono nati, rappresentare simbolicamente il potere a-democratico che le elite di quei paesi esercitano sul resto del mondo. Da questo punto di vista sarà importante il ruolo che le forze della sinistra, oggi tutte al governo a differenza del 2001, saranno in grado di svolgere. Bisognerà essere capaci di esercitare un forte contrappeso rispetto alla tentazione che inevitabilmente farà breccia nel provincialismo italiota di molti esponenti della maggioranza di centrosinistra e soprattutto del Pd, quella cioè di assecondare il carattere di vernissage mediatico tipico di questi vertici, evitando accuratamente di far emergere elementi di differenziazione, in maniera tale da far prevalere nelle cronache giornalistiche gli aspetti di colore e placare con le foto di gruppo l’eterna ansia di legittimazione che caratterizza la politica italiana.In questo senso notevoli passi avanti sono stati fatti invece nel resto del mondo e non sfugge il ruolo svolto dal movimento alter-mondialista nello smascherare gli inganni più evidenti che venivano celati dalle luci della ribalta mediatica. Lontani sono ormai i tempi in cui medie potenze come l’Italia si struggevano per essere ammesse in quel consesso, e ottenere così la sanzione del proprio ruolo. Oggi i paesi che non ne fanno parte, e soprattutto le potenze emergenti dell’Asia e dell’America Latina come Cina, India, Brasile, Argentina e Venezuela, non sono disposte ad abdicare alla rappresentanza dei propri interessi in cambio di un invito a fare da spettatori ai vertici, consapevoli che solo all’interno di istituzioni realmente democratiche possono far valere la forza dei loro numeri, la maggioranza degli abitanti della terra, rispetto ai numeri dei G8 che sono essenzialmente quelli del denaro e degli eserciti.Rimane tuttavia fondamentale il ruolo che una nuova cittadinanza globale è in grado di svolgere nella realtà in cui viviamo. Occorre riportare al centro della scena le contraddizioni e i punti di crisi dell’attuale assetto globale, elementi intimamente connessi al modello di sviluppo neoliberista, modello rispetto al quale le elites dei G8 non appaiono disposte ad accettare alcun cambiamento di rotta. Poco o niente c’è quindi da aspettarsi come gentile concessione del sovrano, molto si può ottenere conquistando lo spazio di un nuovo agorà mondiale, in cui realizzare l’integrazione di tutti gli elementi di conflitto sociale interni al sistema liberista e oggi ristretti nei confini nazionali. La democrazia quindi, come conquista da ottenere per i cittadini del mondo, come singoli e come moltitudine, e non come modello prêt-à-porter da esportare a cavallo dell’ideologia dominante o peggio sulle ali dei bombardieri.Ritorna ancora una volta il problema dell’egemonia, oggi saldamente in mano alle destre mondiali. Troppo breve è stata la stagione dei movimenti, nei quali molti di noi avevano visto l’alba di una nuova era. Ancora una volta si è sottovalutata la forza del nemico; una forza che deriva dal poter determinare le condizioni di vita di ciascuno di noi. Certo la popolarità dei tradizionali centri di promozione delle politiche liberiste è ai minimi termini; pensiamo al discredito in cui versano istituti come il FMI e la Banca Mondiale che hanno avuto un ruolo fondamentale nell’imporre queste politiche al livello globale, agendo in nome e per conto del consenso di Washington ma celandosi sotto le false spoglie delle istituzioni super partes. Tuttavia il problema sta nel fatto che il sistema in cui viviamo, nei suoi caratteri fondamentali, è ormai senso comune per la gran parte dei cittadini dei paesi occidentali. Quello che non può fare la propaganda ideologica lo crea il clima da stato d’assedio nel quale siamo costretti a vivere: precarietà del lavoro, fobia rispetto all’immigrazione, al terrorismo, fuga dalla politica e dalla partecipazione, spingono verso la conservazione dello status quo, fiaccando tutte le energie del cambiamento. Si tratta di fenomeni globali, tratti costitutivi della crisi della democrazia, della quale il neoliberismo non è il naturale complemento ma il vero e proprio cancro. Possiamo e dobbiamo sfondare questo muro, riportando il conflitto sociale al suo ruolo di pratica della democrazia e non di anomalia del processo democratico come anche nel nostro paese, soprattutto dagli ideologi del Pd, viene vissuto. Il G8 può essere una occasione e chiama chi in Sardegna si considera di sinistra a un ruolo da protagonista. Torniamo a disturbare il manovratore.

martedì 31 luglio 2007

Non barattiamo il principio di uguaglianza con quattro soldi spremuti ai ricchi
di
Andrea Pubusa

Possibilie che non si capisca che la bontà o meno della tassa sul lusso non c'entra un fico secco? Così come va lasciata nel cassetto la bandiera degli ultras pro o contro Soru? Qui, ha ragione Pietro Ciarlo, c'è in gioco qualcosa di molto più importante, anzi uno dei principi centrali della nostra Costituzione: il principio di eguaglianza. E su questo non si scherza, non sono ammesse superficialità o approcci che sull'aspetto formale facciano prevalere profili sostanziali e di merito.
Anni fa il presidente della Provincia di Milano, una ex cantante passata alla destra, suscitò la giusta indignazione di molti, limitando alcune sovvenzioni scolastiche agli studenti residenti. Una misura venata di un odioso spirito razzista verso gli studenti figli di extracomunitari. Domani la Regione Lombardia potrebbe imporre un tributo a tutti gli italiani residenti da Roma in giù che si rechino in quella operosa città. In una versione classista, il balzello potrebbe imporsi solo a coloro che hanno un alto reddito e il ricavato potrebbe essere destinato ai lavoratori ultracinquantenni privati del loro posto di lavoro.
Come si vede, una volta infranto il principio di eguaglianza, ognuno può sbizzarrirsi a pensare misure di destra o di sinistra che introducono dei distinguo fra cittadini.
Confesso: personalmente ai ricchi (alla Briatore) imporrei non solo la tassa sul lusso, ma anche una delle vecchie corvées (una prestazione personale), ancora esistenti in Italia negli anni '50, e cioè gli chiederei, se vuol trascorrere l'estate da noi, di dissodare, con pala e piccone, uno dei tanti assolati e incolti campi di Gallura. Forse la prestazione contribuirebbe a migliorarne non solo la linea, ma anche l'umanità e la condotta.
Ma che c'entra? Il problema è se questa misura, vigente l'articolo 3 della Costituzione, sia ammissibile. Personalmente, sopratutto sotto questi chiari di luna, in cui la Costituzione è sotto attacco sul fronte sostanziale (e presto lo sarà di nuovo su quello formale), io non baratterei il principio di eguaglianza con nessuna misura, lo proteggerei come il bene più prezioso, come la pupilla degli occhi.

venerdì 27 luglio 2007

Sinistra democratica, statuto oligarchicoda movimento ad associazionecon vertici dediti alla crio-conservazione
di
Veronica Marongiu
Lo statuto provvisorio di Sinistra Democratica è stato pensato dall'assemblea dei soci fondatori e approvato dal comitato promotore. Vi invito a leggerlo.
Ho rispetto del lavoro degli altri. Ma qualcosa su questo documento vorrei dirla anch'io. Non lo condivido. Non condivido l'impostazione fortemente verticistica che è stata data all'organizzazione. Questo statuto non ha nulla a che vedere con l'idea di movimento che parte dal basso, coinvolgendo persone della società civile. Che è quanto si è abbondantemente ripetuto fino ad ora. Perché le parole finora sono state bellissime. Ma i fatti, gli atti, gli scripta, che manent e dettano le regole, sono bruttissimi. E tradiscono le premesse e le aspettative. Senza pietà.
Leggendo lo statuto, parte della robusta fiducia che avevo riposto nel progetto di SD mi è venuta a mancare. Comincia a serpeggiare nel mio animo l'orrendo sospetto che tutta l'operazione SD, al pari di quella per il PD, sia un processo di crioconservazione a beneficio di qualche depositario della Verità politica, impegnato soprattutto e tutt'al più a difendere e rinsaldare le posizioni di un qualche suo luogotenente. E bisogna dire che in Sardegna, da questo punto di vista, non ci siamo fatti mancare nulla.
Ma voglio essere ottimista e pensare che siamo ancora in tempo a correggere il tiro. Ricordo perfettamente la giornata del 5 maggio a Roma e il bel clima che tutti abbiamo respirato, allargando bene i polmoni per ossigenarli con la fondata speranza che una politica diversa, una politica migliore fosse possibile. Tutte quelle belle parole sulla rivoluzione culturale politica e sulla partecipazione buttate al vento!
E sì che Salvi l'aveva preannunciato: «Non vi deluderemo!». Quanto ha stonato quella frase con tutto il resto! Come se noi fossimo nelle loro mani, alla stregua di soggetti poco pensanti in attesa del Verbo. Ecco la fine che ha fatto la concezione democratica del movimento … All'apparir del vero tu, misera, cadesti …
Per entrare nel merito della questione, comincio ad analizzare il ruolo degli iscritti, ovvero di tutte quelle persone che, aderendo al movimento, devono farsi, a mio modo di pensare, democraticamente protagoniste del movimento stesso. Ebbene, il ruolo concepito nello statuto per gli iscritti è a dir poco fondamentale: essi hanno il diritto di partecipare all'attività dell'Associazione (… ma non era un movimento?) e, mano al portafogli, annualmente, l'obbligo di versare la quota di iscrizione.
Dette così, senza specificare altro, le parole “attività dell'Associazione”, chissà perché, mi evocano l'immagine del popolo grondante di sudore impegnato ad arrostire salsicce alle feste, o con le bolle ai piedi dopo una bella giornata di volantinaggio; o anche l'immagine della parte un po' più intellettuale del popolo, impegnata in interminabili discussioni, leggermente fine a se stesse, su temi, però, alquanto importanti. Quest'ultima immagine prende concretezza grazie alle delucidazioni di un articolo successivo, dove si dice che territorialmente ci si può persino organizzare in circoli di studio o tematici.
In fondo, che cosa dovrei aspettarmi da persone cresciute politicamente nei DS? L'impostazione mentale è quella. Non si riesce proprio a concepire, se non a parole, il cambiamento vero delle cose.
Poi c'è questo bell'organismo denominato “Comitato Promotore” che è ingessato nelle figure dei delegati nonché de-le-ga-te al congresso DS. Ed è qua che in realtà gli autori dello statuto danno fondo al concetto di “movimento allargato alla società civile” (di più, evidentemente, non si poteva concepire da ex DS): infatti ben un terzo del comitato promotore può essere costituito da personalità varie, a patto che il loro ingresso sia approvato dal comitato promotore stesso, che, almeno nella fase di start-up, è composto dai soliti noti delegati al congresso dei DS.
Io non ce l'ho contro i delegati. Tutte persone di grande spessore. Solo che ho difficoltà a capire, ed è un mio limite, come abbiano fatto ad approvare questo statuto. E il pensiero che queste stesse persone abbiano il delicato compito di decidere se una personalità sia o meno all'altezza di entrare a far parte del comitato promotore, mi lascia perplessa.
Allora, davanti a tutte queste misure di sicurezza, mentre scorro il documento, mi viene da pensare che almeno il comitato promotore, così rigidamente strutturato e concepito, con tutto questo potenziale intellettivo di personalità esterne e, mi permetto di aggiungere, di delegati al congresso dei DS, abbia un certo rilievo politico all'interno del movimento. E invece, come si poteva capire dal nome, il compito del comitato promotore è quello di lanciare la fase di adesione al movimento.
E credo a questo punto di poter cogliere finalmente l'idea davvero innovativa di questo bello statuto (concepito in teoria per regolamentare un movimento politico allargato e di largo respiro), che è quella di scomodare le personalità del mondo civile non per usufruire egoisticamente del contributo che queste potrebbero dare in termini di contenuti e di idee: no! Per metterle molto più generosamente, senza approfittarne troppo, in vetrina. All'unico scopo di recuperare adesioni. Un vecchio trucco di partito, quello di mandare avanti facce spendibili, per allargare i consensi, mentre le fila sono tenute da altri.
Dopo un'organizzazione di questo tipo, che consente senza dubbio di creare un movimento che parte dal basso, perché, non scordiamolo, dà agli iscritti il diritto di partecipare alla non meglio identificata “attività dell'Associazione”, purtroppo ai soci fondatori resta solo il potere di assumere decisioni di carattere statutario e politico.
E non ci deluderanno. Tranquilli!
Per fortuna esiste anche un direttivo. Il direttivo è costituito, oltre che da parlamentari e varie figure istituzionali di SD, anche dai coordinatori delle regioni e delle città metropolitane.
Ora, che dopo lo scempio compiuto ai danni della democrazia nei precedenti articoli, non si spenda neanche una parola su come si diventa coordinatore regionale e di città metropolitane (ovvero se per elezione democratica o per investitura), è fatto puramente casuale. È una svista. Ovviamente. D'altronde si tratta di uno statuto provvisorio. Non sottilizziamo. Chi rappresenta il coordinatore regionale? I soci fondatori e le loro idee agli occhi degli iscritti ovvero gli iscritti e le loro idee agli occhi dei soci fondatori? Mah!
A questo punto dirò una cosa forte, Salvi e tutti i soci fondatori si siedano onde evitare malori: potere al popolo. Non vi deluderà!
Le idee sulla linea politica devono venire dal basso, dalle personalità così come dalla gente comune. Tutti devono potersi esprimere. La sfida è proprio questa. Stimolare la società civile affinché si convinca che il suo contributo e la sua partecipazione sono necessari se si vogliono risollevare le sorti del Paese. Le decisioni di carattere statutario e politico devono essere prese dalle assemblee degli iscritti. I dibattiti sui vari temi non si devono tenere solo tra iscritti chiusi nei circoli; lo sforzo continuo deve essere quello di coinvolgere ogni volta persone nuove. Anche solo trovare il modo di far ciò risolve l'aspetto partecipativo del movimento.
Non è facile, ma dobbiamo tentare con tutte le nostre forze. E soprattutto i dibattiti devono preludere e si devono concludere con la presa di decisioni da pesarsi poi sull'onesto piatto della bilancia democratica sia a livello locale che nazionale. Il cuore pulsante del movimento non possono essere i delegati al congresso dei DS. Abbiate pazienza! Con tutto il rispetto. E invece nello statuto tutto ruota intorno a loro. E intorno ai soci fondatori.
Il cuore pulsante, da cui il movimento può trarre forza, può essere solo la società civile. Anche per sfaldare una volta per tutte la dicotomia elettore-politico. L'elettore deve essere persona politica, persona che si occupa di politica. La partecipazione di tutti comporta l'innesco vitale di un conseguente processo di responsabilizzazione di tutti. Anche l'atto di andare a votare assume un significato diverso, più completo. Mentre la società ha bisogno di una vera e propria rieducazione, riabilitazione all'uso del proprio potere civico, questo statuto la relega ancora una volta all'eterno ruolo di elettrice passiva, stimolata tuttalpiù dal richiamo del nome della personalità di turno.
Perché siamo caduti così in basso? Stavamo andando bene! Insomma questo non è lo statuto di un movimento. Questo è lo statuto di un partitino. Partitino che vola anche piuttosto basso, direi.
Forza signori, ricominciamo daccapo. Dalle parole che ci siamo detti il 5 maggio.

giovedì 26 luglio 2007

É arrivato il momento di rinnovare la sinistra (ad iniziare da quella sarda)

di

Gianluca Scroccu



Ho letto in questi giorni la bella biografia che Marco Gervasoni ha scritto su François Mitterand, l’uomo che riuscì a portare tutta la sinistra francese al governo ma solo dopo averla unita: un progetto ambizioso e quasi impossibile, in Italia e in Sardegna. Il panorama non è esaltante; se penso alla creazione di un gruppo come quello di Sinistra Autonomista in Consiglio Regionale, il quale sembra interessato solo a chiedere un assessore al presidente Soru, mi chiedo: e così che si vuole parlare ai cittadini e alla “sinistra diffusa”? Si costruisce in questo modo l’alternativa al Partito Democratico Sardo? Uscendo sui giornali solo per richiedere posti di governo? Quanto ci servirebbe anche in Sardegna, invece, una sinistra di governo, socialista, democratica, costituzionale, ricca di spirito critico e capace di leggere veramente la società senza opportunismi o luoghi comuni! Come non vedere il potenziale enorme presente nella società sarda, ad esempio la forte richiesta di eguaglianza, che è poi la vera e più profonda ragione che rende alternativa la sinistra dalla destra, come ci ha insegnato Norberto Bobbio?
Eppure basterebbe dare un sterzata forte al modo di fare politica, recuperando una dimensione etica e riducendo i privilegi della classe di governo e di opposizione che provocano sofferenza ed indignazione in un momento in cui la precarietà sta dilaniando la qualità della vita dei cittadini. Mettendo da parte i radicalismi senza politica, come ci hanno insegnato grandi uomini della sinistra europea come Enrico Berlinguer e Olof Palme, e ponendosi seriamente il problema di come affrontare e governare i grandi problemi della società contemporanea, riflettendo su quale debba essere il profilo della cittadinanza, e il nostro essere sardi, nella società globalizzata e come ridisegnare in base a tutto questo obiettivi e pratiche della sinistra.
Solo così si potrà lavorare alla costruzione di una grande forza progressista, saldamente ancorata all’esperienza del socialismo europeo. Dobbiamo farlo perchè la nostra è una realtà in cui si è pericolosamente arrestata la mobilità sociale, proprio come avveniva prima del miracolo economico degli anni Sessanta: chi nasce all’interno di una famiglia benestante rimane tale per tutta la vita, mentre chi proviene da una famiglia di medie o basse condizioni, anche se laureato, rischia di non veder migliorate le propri condizioni rispetto ai propri genitori. Una sinistra capace di rinnovarsi realmente sotto il profilo culturale, programmatico e morale potrà affrontare inoltre la sfida per uno sviluppo diverso e di qualità, a partire dalla questione ecologica e ambientale; quella per la piena parità fra uomo e donna nel mondo del lavoro, in politica e in famiglia; quella per la libertà di ciascuno di poter costruire il proprio futuro affettivo e familiare secondo le proprie aspettative ed inclinazioni, rispettando in maniera laica e non laicista le scelte di tutti.
Senza un grande rimescolamento culturale la sinistra, anche in Sardegna, rischia solo di avere una mera funzione di testimonianza e di farsi stritolare dalle ambizioni particolaristiche coltivate da molti dei suoi attuali, e oramai decisamente vecchi visto che sono gli stessi da oltre venticinque anni, “leader”; è questo il momento di uscire allo scoperto per provare a ridare dignità al socialismo e alla sinistra sarda.
ATTUALITA’ DELLA QUESTIONE MORALE:RITORNANO GLI ANNI DI FANGO?
di
Enrico Palmas e Carlo Dore jr.
In uno dei suoi ultimi libri dedicati alla storia d’Italia, Indro Montanelli descriveva la stagione di Tangentopoli come “l’epoca degli anni di fango”, come una fase storica dominata dal rovinoso tracollo di una sistema di potere che trovava nelle connessioni perverse tra politica, mondo economico e settori della criminalità più o meno organizzata il suo stesso asse portante.
Sotto i colpi del maglio purificatore delle indagini della procura di Milano caddero uno dopo l’altro tutti i partiti che avevano governato il dopoguerra, mentre i principali protagonisti dell’epopea del CAF sfilavano sul banco degli imputati nella disperata ricerca di risposte sensate da opporre alle incalzanti domande dell’allora PM Di Pietro.
Nella stagione degli anni di fango, le forze della sinistra venivano chiamate a guidare quel processo di moralizzazione della res publica di cui i cittadini auspicavano l’attuazione: agli occhi degli elettori, il neonato PDS assumeva infatti ancora i contorni propri del partito di Berlinguer.
Berlinguer credeva nella dimensione “etica” della politica, intesa come strumento di partecipazione e non come veicolo per assecondare bramosie di potere o velleità di prestigio e ricchezza; Berlinguer vedeva lontano, ed aveva per primo compreso il pericolo che l’avvento del craxismo rappresentava per il Paese; Berlinguer aveva sfidato il sistema del CAF, e la sua “questione morale” era stata frettolosamente bollata come l’ultima invettiva di un estremista fuori dal tempo.
Tangentopoli sconfessava in toto queste valutazioni: la questione morale non poteva più essere considerata priva di fondamento, i partiti risultavano davvero ridotti al ruolo di grigi apparati di un disegno corruttivo troppo radicato nella società per essere spazzato via senza un radicale mutamento a livello di classe dirigente. Dieci anni dopo la sua morte, Berlinguer aveva definitivamente vinto la sua personale partita con la Storia.
Ma la grande speranza di rinnovamento a cui in precedenza abbiamo fatto cenno è stata rapidamente frustrata dall’avvento di Berlusconi, e dall’incomprensibile pulsione delle forze del centro-sinistra ad adottare lo stesso modus operandi del Caimano nella speranza di conquistare il consenso degli elettori moderati.
Questa irresistibile attrazione di alcuni esponenti dell’attuale maggioranza di governo per i principi – cardine del berlusconismo non emerge solo dal progetto volto alla creazione del PD (più volte descritto come la riproduzione in chiave “riformista” di quel modello di partito commerciale di cui Forza Italia rappresenta la massima attuazione), ma anche dal contenuto delle intercettazioni oggetto dell’ordinanza formulata dal GIP di Milano Clementina Forleo.
Premesso infatti che, dal punto di vista giuridico, risulta del tutto immotivata l’indignazione “per l’ingiustificata fuga di notizie” manifestata dai politici indirettamente coinvolti nelle indagini sulle scalate bancarie (è infatti noto che il segreto istruttorio viene praticamente meno con riguardo ai provvedimenti che, una volta depositati in cancelleria, sono messi a disposizione degli altri soggetti del procedimento penale), dinanzi al “facci sognare!” con cui D’Alema dimostrava di approvare le operazioni programmate da Consorte o all’entusiasmo manifestato da Fassino per “essere diventato padrone di una banca”, lo spettro degli anni di fango, della triste stagione delle connivenze tra politici ed imprenditori inizia ad aggirarsi incessantemente tra le stanze del Botteghino.
Indipendentemente dalle conclusioni a cui i PM titolari delle suddette indagini potranno pervenire - nella speranza che la Casta delle aule parlamentari non si schieri a difesa dei suoi autorevoli esponenti impedendo ancora una volta alla Magistratura di esercitare appieno le sue funzioni- , i militanti dei DS hanno ora il dovere di interrogarsi sulla “legittimità politica” di quegli “atti di sana tifoseria” posti in essere dai massimi dirigenti del partito a sostegno della strategia finalizzata ad attribuire ad UNIPOL il controllo della Banca Nazionale del Lavoro, nella piena consapevolezza del fatto che ogni forma di connessione tra partiti ed imprenditori collide apertamente con i presupposti su cui si fondava la “questione morale” prospettata da Berlinguer nel lontano 1981.
Se si afferma che proprio la questione morale mantiene ancora oggi determinati profili di attualità, è allora anche possibile sostenere che la stagione degli anni di fangonon può, al momento, considerarsi davvero esaurita.

giovedì 19 luglio 2007

Alla ricerca del senso dello Stato smarrito Borsellino ha pagato con la vitaper un'Italia che deve onorarne il sacrificio
di
Gianluca Scroccu

Quel 19 luglio del 1992 me lo ricordo bene. Avevo quindici anni e con mia sorella sonnecchiavo di fronte alla televisione di mia nonna, ad Orani. Improvvisamente venne annunciata un'edizione straordinaria. Una frase secca del telegiornale: «Strage in via d'Amelio, trucidati il giudice Borsellino e gli agenti della scorta».
C'era anche una giovane poliziotta sarda dal luminoso sorriso in quel tragico pomeriggio: si chiamava Emanuela Loi. Anche lei fu travolta insieme al giudice dalla tremenda carica di esplosivo preparata da Cosa Nostra contro quello che, eliminato Giovanni Falcone, restava il nemico principale.
La mia generazione è stata segnata da quei fatti perché ha vissuto in diretta lo sgretolarsi della Nazione sotto i colpi di Tangentopoli e di uno stragismo mafioso cruento e senza pietà: come non ricordare le immagini dei funerali degli agenti morti, con la folla inferocita che inveiva contro le autorità venute da Roma?
Certo, come scrive Alexander Stille nel suo bellissimo libro “Nella terra degli infedeli. Mafia e politica”, appena edito da Garzanti, ci fu anche una reazione rabbiosa da parte della società italiana: ma dopo dove è finita?
Perché la magistratura, che si era rivelata allora uno dei corpi sani dello Stato, è stata sottoposta in questi anni a continui attacchi da parte di un potere politico cinico e pronto a sfruttare le proprie risorse in chiave personalistica?
Sono forse sfumati definitivamente quei valori repubblicani incarnati da Borsellino e dagli agenti della sua scorta come l'onestà, il servizio disinteressato per la Patria e i propri concittadini, la dirittura morale come prima regola della vita politica e amministrativa?
Certo, oggi rabbrividiamo dopo aver letto la notizia apparsa ieri sui principali quotidiani di un'indagine in corso da parte della procura di Caltanissetta che starebbe indagando su personaggi dei servizi segreti deviati “stranamente” presenti sul luogo della strage in quell'estate di quindici anni fa; c'era e c'è un'aria strana in questa nazione, e non siamo nell'ultimo importante romanzo di De Cataldo ma nel paese reale.
A maggior ragione, quindi, in un momento in cui si parla tanto di crisi della politica, di un'Italia che non riesce ancora a trovare la sua normalità, è doveroso ricordare la figura di Borsellino e quanto sia importante lottare per un Paese dove la legalità e il senso dello Stato vincano sempre sulla corruzione e sul crimine organizzato.

CRONACHE DAL TITANIC.
di
Tonino Dessì.
Sfido chiunque a spiegarci quale sia il contenuto dell’”ampia verifica” richiesta dai partiti della maggioranza di centrosinistra nel confronto col Presidente della Regione. La crisi si è aperta nel settembre-ottobre 2006 (con le dimissioni di ben tre assessori) ed ha continuato a strisciare, sia pur compressa da un meccanismo politico e formale che non facilita soluzioni democratiche. E’ passato quasi un anno e sono emersi diversi nodi su cui una seria messa a punto dell’operatività della Regione a due anni dalla fine della legislatura dovrebbe incentrarsi. Funzionamento delle istituzioni: la legge statutaria non ha soddisfatto nessuno. Non solo i promotori del referendum, ma nemmeno la Giunta, che ha proposto, prima ancora che maturasse l’iniziativa referendaria, un pacchetto di emendamenti per reintrodurre quel che il Consiglio aveva temperato: i pieni poteri esecutivi in capo al Presidente, con le funzioni di governo distribuite sempre su dodici persone (otto assessori “d’ordinanza”, due “aggiuntivi” e due delegati del Presidente), non più però secondo la legge, bensì con decreto presidenziale. Questione legale: sulla vicenda Saatchi&Saatchi il Consiglio regionale si è espresso in modo unanime sull’invalidità della gara e sulle conseguenti responsabilità amministrative. Ma l’esecutivo stenta a prenderne atto. Politiche finanziarie e di bilancio: la Corte dei Conti ha sollevato il problema sostanziale della necessità di coprire disavanzi e spese con risorse reali e non virtuali. Ma l’atto di controllo dei giudici è stato qualificato come un attentato politico. Intanto tre leggi finanziarie approvate con crescenti ritardi hanno indotto un effetto cumulativo: famiglie e imprese sono con l’acqua alla gola, nella vana attesa di quel che resta degli incentivi regionali (siano essi per il diritto allo studio, per il master and back, per l’artigianato, per la piccola e media impresa, per l’agricoltura), ma anche questo luglio trascorrerà senza la puntuale predisposizione del DAPEF e del bilancio per il prossimo esercizio. Politiche industriali e dello sviluppo: i vertici romani si sono rivelati improduttivi, ma non solo. La riproposizione di vecchi moduli (rivendicazioni verso lo Stato o partecipazione diretta della Regione nel salvataggio di aziende) è sintomo dell’assenza di una cultura dello sviluppo basata sulla promozione interna e sull’attrazione dall’esterno di industrie competitive, non energivore, non inquinanti, ad alto valore aggiunto. Ambiente: si avverte un abbassamento della guardia, tanto più rischioso in quanto coincide con una recrudescenza degli incendi che può vanificare i risultati conseguiti in ben tre stagioni consecutive di eccellenti risultati. Il presidio del territorio richiede un impulso forte sulla sua manutenzione e un suo uso sostenibile non può prescindere dal legame con le attività umane. Viceversa, mentre sul versante dell’interno si sta incancrenendo la crisi del mondo agricolo e zootecnico, sul fronte costiero il Piano Paesaggistico approvato della Regione non contrasta l’uso distorto del territorio (credo che non si sia costruito mai come è avvenuto a partire dall’annullamento della precedente pianificazione paesaggistica fino ad oggi, col consolidamento una legislazione dei fatti salvi e di una pianificazione fondata sulle deroghe), ma contribuisce alla rottura delle appartenenze. E’ un mero piano di ridistribuzione di valori fondiari e come tale è avvertito: acuisce i conflitti, non li risolve. Ferma è la strategia dei parchi, sparito il piano forestale-ambientale, oscurato il piano di tutela della qualità delle acque (mentre incombe, a causa dei costi di gestione di Abbanoa, la privatizzazione della risorsa), fermi i disegni di legge sull’inquinamento atmosferico e acustico, al palo le bonifiche (altro che muri), in stand by la politica capillare e strutturale dei rifiuti (dopo l’impennata della raccolta differenziata registrata negli anni 2005-2006, oggi il tema sembra esaurirsi col progetto del nuovo termovalorizzatore). Insomma, materiale per una verifica seria ce ne sarebbe. Invece tutto si è incentrato nella confusa richiesta di “nuovi assetti” non meglio definiti. Il Presidente tenta di reprimere quella che, non del tutto a torto, gli appare una sedizione senza capo né coda e continua a puntare su un mero completamento (non particolarmente esaltante, per dire la verità) dei ranghi dell’esecutivo. Può persino permettersi una meschinità come il motu proprio di espulsione dalla maggioranza del rappresentante in Consiglio regionale di Sardegna e Libertà, l’unico che non gli ha chiesto alcun posto né in Giunta né nel sottobosco amministrativo. Non sarebbe di sinistra (padron Tiscali invece sì, ora che si accinge a diventare anche padrone – o azionista di maggioranza- del P.D. sardo). Dal canto loro i piccoli gruppi della sinistra ufficiale si beano delle briciole: R.C. sostituisce la sua rappresentanza in conformità agli equilibri congressuali; Sinistra Autonomistica chiede l’”azzeramento totale” della Giunta e intanto gabella per suo un assessore di stretta proposta presidenziale. Siamo alle danze sul Titanic. Eppure sarebbe non solo bene, ma anche doveroso, a sinistra, avviare una riflessione e un’iniziativa seria e rigorosa per evitare che la speranza di cambiare in meglio la Sardegna faccia un definitivo disastroso naufragio.