mercoledì 30 maggio 2007

IL FATTORE – GENOVA
- o si cambia o si muore-
di
Carlo Dore jr.


I commenti proposti da tutta l’opinione pubblica in ordine all’esito delle consultazioni amministrative del 28 e 29 maggio sono stati, per una volta, concordemente ispirati ad una logica di estremo equilibrio. Una volta concluse le operazioni di voto, i dati oggetto delle definitive proiezioni rendono indispensabili due considerazioni preliminari: malgrado l’emorragia di consensi sofferta al centro-nord, la coalizione che sostiene il Governo (grazie ai successi ottenuti a Genova, L’Aquila e Agrigento) ha vacillato senza crollare; la tanto temuta spallata con cui Berlusconi prometteva di rovesciare la leadership di Prodi alla lunga non c’è stata.
Tuttavia, all’interno dell’Unione i campanelli d’allarme sono tanti e non possono essere ignorati, anche in considerazione del fatto che i principali segnali del disagio in cui versa l’elettorato progressista trovano in una “roccaforte rossa” come Genova la loro principale cassa di risonanza.
Le dimensioni sostanzialmente modeste dell’affermazione riportata dal centro-sinistra nel capoluogo ligure, l’elevatissimo astensionismo, le durissime reprimende rivolte da Sergio Chiamparino e dalla stessa Marta Vincenzi in confronto dei partiti della coalizione costituiscono in questo senso segnali inequivocabili del malessere che serpeggia crescente all’interno del popolo della sinistra, della frattura sempre più ampia che divide la politica dalla società civile.
Premesso che i risultati ora in commento sembrano confermare (considerata la sonora stroncatura a cui le liste dell’Ulivo sono andate incontro in tutto il territorio nazionale) che il nascente PD deve essere qualificato non già alla stregua di un fattore di semplificazione ma semmai di complicazione della crisi politica in atto, spetta ora all’Esecutivo porre in essere quel tanto auspicato “cambio di passo”, presupposto indispensabile per riconquistare il consenso perduto a seguito dell’attuazione di una strategia complessiva di cui (dalle incertezze sui DICO all’approvazione dell’indulto; dalla decuplicazione del numero di ministri e sottosegretari all’immobilismo ostentato sui temi della giustizia e dell’etica pubblica) i cittadini faticano a comprendere presupposti e prospettive.
Così ragionando, le priorità che devono caratterizzare l’azione dell’Esecutivo in questa nuova fase sono le stesse che emergono dalla prima lettura del programma dell’Unione: in particolare, la rinnovata forza d’urto ostentata dal Caimano nel corso della campagna elettorale appena conclusa ha confermato una volta di più la necessità dell’approvazione di una legge che, risolvendo la questione del conflitto di interessi con l’incisività di cui clamorosamente difetta il c.d. disegno-Gentiloni, ponga fine una volta per tutte a quell’assurda commistione tra politica e potere economico che tuttora costituisce la principale anomalia del sistema – Italia.
Inoltre, il fattore - Genova è indicativo dell’esigenza di procedere ad una radicale opera di moralizzazione della res publica, esigenza resa ancor più stringente dai recenti studi condotti in ordine ai costi della politica e dalle percentuali relative alla massiccia presenza nelle istituzioni di soggetti indagati, rinviati a giudizio o addirittura condannati in via definitiva per reati infamanti (talvolta – è il caso dell’on. Previti – anche alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici).
Approvazione di una legge sul conflitto di interessi, abrogazione delle leggi-vergogna, riproposizione della questione morale: questi i primi punti da cui l’Unione deve partire per avviare quella reale fase di cambiamento, quella effettiva strategia di deberlusconizzazione del Paese di cui da troppo tempo l’elettorato progressista attende l’attuazione. Il fattore-Genova ha messo per l’ultima volta in rilievo la necessità di attuare questo cambiamento: riprendendo il monito paradossalmente pronunciato proprio da Piero Fassino prima del congresso del 2001, per il centro-sinistra al momento vale davvero la logica secondo cui “o si cambia, o si muore”.


Bush, il messia della guerra

di

Luca Scroccu

Il prossimo 9 giugno il presidente Bush verrà in visita ufficiale nel nostro paese. A sinistra si discute, e molto, se sia opportuno o no manifestare contro il presidente americano. Non si vorrebbe che in Italia si facesse una cosa che negli Stati Uniti avviene quasi quotidianamente: protestare pacificamente contro uno dei presidenti peggiori della storia americana. Sembra che qualche leader del centrosinistra, come Piero Fassino, abbia paura che i Ferrara e i "chierici alla guerra" (come li ha definiti nel suo bellissimo saggio omonimo recentemente edito da Bollati Boringhieri lo storico Angelo D'Orsi) scaglino i loro anatemi contro la "sinistra antiamericana". A prescindere dal fatto che non si comprende bene come una persona che si definisce di sinistra possa essere pregiudizialmente "anti" un popolo o un singolo individuo (caratteristica più consona alla destra), stupisce ancora una volta l'immaturità di certi esponenti politici incapaci di leggere e storicizzare il ruolo ricoperto da George W. Bush nella storia contemporanea. Ma forse, rivedendo certi precedenti, non c'è da meravigliarsi: Furio Colombo scrisse un bellissimo articolo sull'Unità del 27 novembre del 2004 all'interno del quale raccontò di una riunione nella sezione "Forte Aurelio Bravetta"dei DS romani in cui era stato invitato per commentare le elezioni presidenziali insieme ad un giovane esponente della nomenklatura diessina della capitale, tale Fabio Nicolucci. Nell'occasione, il giovane si espresse in un peana della strategia elettorale di Bush, vero interprete della società americana, dicendo che aveva vinto su Kerry perché aveva saputo toccare corde profonde, interessi e valori di molta gente. Colombo né uscì sconvolto e si chiese: "Con chi parlo?". Argomentazioni perlomeno rischiose, se non altro per il semplice motivo che tutto il disegno di esportazione della democrazia con le armi dell'amministrazione americana non ha certo contribuito a stabilizzare la regione.
A queste persone sembra sfuggire, insomma, il carattere eccezionale di questo presidente colpevole di aver piegato la religione civile statunitense, che tanto ha dato alla cultura mondiale, per creare una religione della politica, tradizionalista ed integralista nel richiamo al popolo eletto e alla "missione" americana, di cui si è servito per giustificare le sue imprese belliche successive all'11 settembre (fondate, giova ripeterlo, sulla esibizione all'ONU di prove false create ad arte). Bush è stato indubbiamente abile, almeno in una certa fase, nel portare avanti il legame tra l'esplicito invito a considerare l'America come il migliore dei mondi possibili, attraverso un curioso impasto di retorica utile a nascondere ben diversi interessi terreni, e una altrettanto esplicita credenza religioso-radicale, che ha portato a creare una vera Bible Belt (una cintura della bibbia) che attraversa gli stati del Sud e dell'Ovest (redneck agenda). Da qui anche tutto l'armamentario di immagini messianiche con cui gli uomini dello staff di Bush hanno infarcito e infarciscono i suoi discorsi presidenziali (peraltro, se si pensa alle recenti vicende che hanno determinato l'allontanamento di uno degli uomini più vicini a Bush, Paul Wolfowitz, dalla presidenza della Banca Mondiale, si può comprendere bene come questo discorso si fermi ad un mero piano ideologico). Una ripresa di un connubio che avevamo conosciuto nel Novecento soltanto negli esprimenti dei diversi totalitarismi, e che ci dovrebbe ricordare, come ha scritto uno storico autorevole ed equilibrato come Emilio Gentile nel suo "La Democrazia di Dio. La religione americana nell'era dell'impero e del terrore", edito da Laterza nel 2006, che quando religione e politica congiungono le loro forze nell'esercizio del potere, la libertà e la dignità umana possono essere messe in discussione in maniera molto seria.La guerra portata avanti da Bush è stata una risposta irrazionale ai problemi del nostro tempo; la cosa grave è che a farlo sia stato l'uomo più potente sulla terra. Il mondo forse ha sottovalutato la carica radicalmente alternativa di questa presidenza. Quella dei neocons è stata infatti una convergenza strategica tra la destra tradizionale classica e il radicalismo intellettuale intessuto da una visione estremistica di tipo democratico-imperiale (a partire dal suo assunto più noto: la democrazia si esporta con le armi), nutrita da un'idea di cambiamento rivoluzionario che non ammette mediazioni e riflessioni critiche. È la teorizzazione di una nuova America alternativa alla vecchia Europa, secondo la nota definizione di uno dei maggiori esponente neo-cons, Robert Kagan. Importare la democrazia con la forza è un non senso storico di cui tutti stiamo pagando le conseguenze.
Tiziano Terzani, un grande intellettuale, giornalista e uomo di pace scrisse nel lontano 1972, in uno dei suoi bellissimi reportage dal Vietnam, un concetto semplice ma fondamentale: "La guerra è una cosa triste, ma ancora più triste è il fatto che ci si fa l'abitudine". Sta a noi, alla nostra volontà di impegnarci a partire dal quotidiano per un mondo diverso e migliore, fare sì che non la guerra, ma la pace e la giustizia sociale diventino abitudine. Con G.W. Bush, tutto questo, purtroppo, non è mai successo.

giovedì 24 maggio 2007

IL PROBLEMA DEL DOPO-SORU
di
Tonino Dessì
Ho affermato tra i primi, proprio su questo sito, l’esigenza, per la politica sarda, di porsi il problema del dopo-Soru. Non perché io condivida l’ipotesi, proposta nell’intervento di G. Cossu, di limitare a un mandato la candidabilità presidenziale. In linea di principio, come avviene in tutte le forme di presidenzialismo democratico, il limite invalicabile della non rieleggibilità dovrebbe essere fissato in due mandati. Nella Legge Statutaria, per esempio, questo principio avrebbe potuto opportunamente essere tradotto in norma esplicita. Il problema relativo all’attuale Presidente della Regione è invece legato al giudizio sul sistema che per suo tramite si sta instaurando. Non so dire se si tratta di una mutazione o di un disvelamento. Utilizzando il solo parametro della cronologia (dall’insediamento in poi) osserverei una mutazione, rispetto agli impegni personali e programmatici originari. Ma forse la situazione era già in origine un po’ più complessa, come poi cercherò di dire.Parto da alcune valutazioni sulla condizione attuale. L’amministrazione regionale è praticamente nel caos. Se l’idea di buon governo poteva inizialmente sembrare moderata, rispetto alle aspettative di cambiamenti radicali, oggi considererei il buon governo, l’ordinata e trasparente gestione della cosa pubblica nel rispetto delle regole, l’obiettivo più rivoluzionario da perseguire, in un contesto dominato dalla delegittimazione dell’amministrazione (anziché dalla promozione della sua professionalità e della sua funzione di garanzia della legalità, dell’imparzialità e del buon andamento), dall’infiltrazione di consulenti spesso poco noti, ma potenti nei suoi gangli apparentemente interstiziali o addirittura informali, eppure divenuti determinanti, in quanto legittimati dal capo dell’esecutivo e da alcuni dei suoi assessori più fidati (mi riferisco esplicitamente e senza tema di smentita al ruolo, che pochi conoscono nella sua portata reale, svolto dall’attuale assessore della sanità), dall’orientamento personalistico nelle scelte, dall’approssimazione procedurale che emerge sempre più in alcune vicende. La questione Saatchi&Saatchi, al di là e a prescindere dalla valutazione che ne darà la magistratura, tutto questo testimonia e non la ritengo un episodio isolato.Ma anche il Consiglio regionale è malridotto e subisce il disordine dell’esecutivo. La legge finanziaria è il simbolo più eclatante della situazione. A prescindere dai suoi contenuti (la prevalenza di quelle che, ormai per uso comune, sono definite “marchette” ha molti precedenti, il che significa che ben poco è cambiato), è la sua approvazione a metà dell’esercizio cui si riferisce, che la rende del tutto inutile. Ed è la terza della legislatura. Cosa sarebbe stato meglio dell’imporsi fin dall’inizio la presentazione e l’approvazione entro la fine dell’anno precedente, cosa che ormai Governo e Parlamento nazionali, di qualsiasi colore dominante, riescono a fare da quindici anni? Ma ciò che è più grave è l’ingiustizia che ciò provoca nella società sarda, il rallentamento che si produce non solo nei suoi processi di rinnovamento, ma proprio nella vita molecolare, quotidiana delle famiglie, delle imprese, delle amministrazioni locali. E ciò che è più impressionante è la cinica, anche perché reiterata, consapevolezza di tutto ciò da parte degli attori politici e istituzionali: in primis del capo dell’esecutivo ex assessore ad interim del bilancio, ma anche dei responsabili dei gruppi e dei partiti della maggioranza. Non che si possa assolvere un’opposizione imbelle, priva di idee quanto di spina dorsale, ma in fondo abbastanza contenta del fatto che tutto continui esattamente come prima, perché, in un domani che le regalasse il ritorno alla guida della Regione, potrebbe, anch’essa, a proprio avviso giustificatamente, perpetuare esattamente lo stesso andazzo della legislatura in cui essa ha governato.Ad oltre due anni e mezzo, il momento per alcuni giudizi, per chi ha esperienza tecnica (in senso stretto) della politica e dei fatti di governo è ormai più che maturo, purtroppo. Il tempo scorre come la sabbia: le elezioni (e lo si vede già nei comportamenti del ceto politico) sono alle porte; certo, altri due anni e mezzo ci separano dalla conclusione formale, ma molti di noi sanno che due anni e mezzo passano in un lampo ed è già domani.Non è cosa ininfluente. Uno dei problemi che ho cercato di affrontare da assessore, anche a costo di qualche bruciante frizione con le organizzazioni sindacali, è quello della riconversione industriale. So di toccare un punto delicato. Ma avendolo detto proprio a Carbonia e a Portoscuso in momento non sospetto (ero, appunto, assessore) oggi posso farlo ancora più liberamente. La metallurgia e per certi versi anche la chimica sarda sono al limite estremo della sostenibilità di mercato. Occorre fare conti realistici con i processi di ristrutturazione su scala europea, con gli alti costi dell’energia (il cui elevato consumo è ineludibilmente connaturato ai processi produttivi delle maggiori industrie sarde), con alcuni insuperabili limiti fisici. Qualcuno sa dove Portovesme S.r.l. potrà conferire le proprie scorie, dopo che avrà esaurito la discarica di Genna Luas, ormai piena per oltre la metà del suo milione e mezzo di metri cubi e per la cui realizzazione ci sono voluti quasi dieci anni ? Il territorio ne accetterà l’ampliamento o la costruzione di una nuova? E sulla chimica: come non leggere le prescrizioni ministeriali sui muri di cemento se non come una resa, rispetto all’esigenza di modificare i processi produttivi rendendoli fin dall’origine il meno inquinanti possibile? E dietro questo, non c’è forse la consapevolezza che prospettive incerte sul futuro sconsigliano gli investimenti destinati al rinnovamento degli impianti? E allora aggiungo: ma a cosa serve un piano energetico non troppo dissimile, nella sua filosofia, da quello elaborato a suo tempo dalla Giunta di centrodestra (limitazione dell’eolico a parte)? A cosa serve il “tutto carbone” per il consumo industriale interno, posto che il gasdotto servirà prevalentemente per l’approvvigionamento continentale? Penso peraltro che anche su questo non tarderemo a renderci conto di una permanente criticità: sono circa venticinque anni (da quando in pratica faccio politica) che ogni tentativo di affidare in varie forme agevolate a qualche impresa lo sfruttamento del carbone Sulcis per produrre energia non va in porto. Ancora oggi, pur in un regime di prezzo crescente di tutti i combustibili fossili, importare carbone migliore dal Sudafrica o dalla Polonia costa meno. E che ne sarà di un parco energetico sovradimensionato, quando entrerà in funzione il cavo SAPEI? Quel cavo, certamente, potrà servire per esportare (nel programma di SardegnaInsieme avevamo però proposto che la Sardegna non diventasse una piattaforma energetica per l’esportazione), ma ci si può ancora nascondere che, con la piena liberalizzazione del comparto elettrico del mercato energetico, ormai ineluttabile anche per l’Italia (benché qui finora consapevolmente ritardata), SAPEI sarà soprattutto utilizzabile per importare energia a costi di mercato?Ecco perché questa legislatura avrebbe dovuto essere spesa per costruire una transizione industriale attraendo quell’industria non energivora, non inquinante, ad alto valore aggiunto, di cui anche una piccola regione insulare ha bisogno per non restare fuori dai processi economici mondiali. Non si può solo assistere alla progressiva chiusura delle fabbriche (vedi il settore tessile) o vivere con l’incubo che chiudano all’improvviso le energivore, senza preparare un’alternativa. Non si può pensare seriamente di vivere solo di turismo o di produzioni artigianali o di agricoltura locale. Quando scegliemmo Soru pensavamo che un Presidente di provenienza imprenditoriale a questi problemi avrebbe saputo dare un contributo. Posso solo prendere atto che, anche nella matrice imprenditoriale, ci sono inclinazioni e vocazioni diverse: molti industriali si sono trasformati in finanzieri ed in immobiliaristi; nessun finanziere o immobiliarista, nel nostro Paese e nella nostra Isola, si è trasformato in industriale, neppure quando si è messo in politica.Tuttavia su un punto ha ragione Paolo Maninchedda. Non è demonizzando la persona di Soru che si rende un servizio alla politica. Soru l’abbiamo chiamato noi. Oggi, per sopravvivere, lui sta cambiando in parte le sue alleanze. Ha bisogno della neutralità, se non del sostegno, di alcuni poteri forti, interni o contigui al centrosinistra tradizionale.La chiave di lettura dell’ultimo congresso regionale dei DS sta quasi tutta qui. Archiviato (ma non era di sua competenza, trattandosi di fatto nazionale) senza batter ciglio l’abbandono della Sinistra Democratica, il Congresso ha registrato un parziale cambio di gestione, con il palesarsi di un’alleanza tra l’area socialista (ormai non solo egemone politicamente, ma maggioritaria anche numericamente) e proprio la parte degli ex-PCI originariamente più ostile alla candidatura di Soru. La proclamazione della ricandidatura presidenziale ha avuto un segno tutto politico: Antonello Cabras ha notificato che la maggioranza congressuale, tra Presidente della Regione e Presidente del Gruppo, sceglie il Presidente della Regione e che nei DS, pronti a trasmutarsi nel Partito Democratico, non vi sono candidati alla successione presidenziale, casomai qualcuno avesse coltivato tale velleità.E’ qui che veniamo al problema cui accennavo in apertura: mutazione o disvelamento? Non voglio dare ora una risposta, anche se nel valzer di nomine, da quelle bancarie a quelle di TecnoCasic, qualche indizio emerge. Così come emerge in alcune questioni urbanistiche importanti: chi beneficerà a Cagliari, nella partita su Tuvixeddu, della sottrazione di volumetrie a Coimpresa? Per quali destinazioni, a chi e dove fisicamente andranno quelle volumetrie? Basta aspettare ancora un po’ e la risposta, che molti di noi immaginano, sarà palese a tutti. Certo è che tira aria di restaurazione. Né più ne meno di quanto avvenne a metà della legislatura Palomba. Esattamente stessi tempi e stessi protagonisti, con una differenza non da poco: per Palomba fu decretata l’uscita a fine corsa, per Soru si decreta la riconferma. Con quali conseguenze, anzitutto sul futuro dell’azionista principale della maggioranza di centrosinistra (il nascente Partito Democratico, del quale fa parte anche un protagonista per ora silente, ancorché non privo di tensioni, cioè la Margherita) non sappiamo ancora.Tutto ciò detto, bisogna pure far politica. Io non so se Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo sarà quello che alcuni di noi vorrebbero. E non so se sarà uno dei soggetti di prossime alleanze politiche ed elettorali. Ad oggi ha esattamente 18 giorni di vita: figuriamoci. So che molte dinamiche comunque porteranno alla costruzione di coalizioni a sinistra del Partito Democratico, ancorché con esso alleate. Sinistra Democratica (o quel che ne verrà fuori), PdCi, Prc, SDI, dovranno fare i conti con la necessità di uscire dalla frammentazione: ne va della sopravvivenza. E non è difficile pensare che tali coalizioni interloquiranno in varie forme con altre forze del centrosinistra e sardiste (Italia dei Valori, Sardegna e Libertà, Partito Sardo d’Azione), ma ad una condizione non contrattabile: tenere fuori il centrodestra dalla guida della Regione. Nessuno di noi cadrà nella trappola del “muoia Sansone con tutti i filistei”. Se la situazione è grave come mi sono sforzato di spiegare, i pali di ancoraggio restano tuttavia non suscettibili di variazione.E allora, Soru o non Soru, il terreno del confronto politico va imposto con fermezza, anzitutto sui contenuti materiali dell’azione di governo, in ordine ai quali, anche tra alleati, si può competere nella ricerca del consenso, che è condizione culturale per perseguire, se non l’egemonia, almeno la massima efficacia della propria azione politica.Qualità delle istituzioni, strategia economica, questione occupazionale, welfare (la nostra sanità, dopo due anni e mezzo, costa più di prima ed è disfunzionale come prima: si guardi alla situazione del Brotzu), ambiente (dopo e fuori dalla confusione con urbanistica e paesaggio). Questi sono i temi su cui tentare di imporre un punto di vista. E per imporlo con fermezza occorre anche sperimentarsi sul terreno delle regole. Quasi certamente nemmeno questa sarà la legislatura del nuovo Statuto Speciale. Però nessuno ci vieta di parlarne appropriatamente. Senza una cornice culturale costituzionale, infatti, è inevitabile che si partoriscano piccoli aborti come la Legge Statutaria. Democraticità e rappresentanza: certamente invece anche questo Consiglio regionale partorirà una nuova legge elettorale. Possiamo batterci perché sia fatta in grazia di Dio e ci fornisca non solo la stabilità della maggioranza e dell’esecutivo, ma anche una rappresentanza non concentrazionaria e nello stesso tempo anche di qualità? Costi della politica: ormai sappiamo che non è demagogico parlarne. Se, come dice Pubusa su questo sito, vi sono studi che dimostrano che il costo medio dei nostri politici è doppio rispetto a quello di altre esperienze democratiche europee, beh, allora io non mi tiro indietro davanti alla proposta di dimezzarlo tout court. Ma anche in politica occorre una comparazione tra costi e produttività. Qui torniamo alla legge elettorale. Col sistema attuale vi sono rappresentanti del popolo eletti con poche centinaia di voti. Il divieto di mandato imperativo, contenuto nella nostra Costituzione come in tutte quelle democratiche occidentali, è di fatto eluso. Se a una persona basta soddisfare le aspettative di alcune decine di famiglie per poter aspirare a guadagnarsi la carica e a conservarla, è a quegli interessi che guarderà, prima che a quelli generali. Per altro verso, più ci si spinge verso il trasferimento di funzioni al sistema delle autonomie locali, più diventa chiaro che è al livello locale che si deve avere la rappresentanza territoriale e che perciò il Consiglio regionale deve essere un vero Parlamento e non un camera confederativa di rappresentanze territoriali. Allora 85 e persino 80 consiglieri regionali sono troppi e non servono. Meglio, mettiamo, sessanta, ma eletti tutti con ambiti vasti di consenso, territoriali, sociali, d’opinione. Del resto al Consiglio regionale si affianca il Consiglio delle Autonomie: è là che si esprime il concorso del sistema territoriale alle scelte della Regione.Concludendo: le idee strategiche non mancano, anzi, sono praticamente obbligate. Il problema è far venir fuori una classe politica che sappia interpretarle, anche sapendo di correre qualche rischio. Una classe politica che a questo punto non abbia né il bisogno di evocare un Soru (tanto c’è già), né quello di esorcizzarlo. Per usare uno slogan ripetuto nella scorsa campagna elettorale regionale: lui non è un gigante, noi non siamo dei nani. Salvo però l’obbligo per noi, indipendentemente da lui, di provarlo con maturità e con coerenza.

martedì 22 maggio 2007


UNIRE LA SINISTRA, CAMBIARE LA POLITICA

Presentazione del Movimento
Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo

Cagliari
Lunedì 28 Maggio 2007
Sala Conferenze del Banco di Sardegna
Viale Bonaria, Ore 17

DIBATTITO PUBBLICO

Presiede: Andrea Pubusa
Associazione per il Rinnovamento della Sinistra

Coordina: Enrico Palmas, Coordinatore provinciale
Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo

Introduce: Manuela Scroccu
Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo- Cagliari

Conclude: Cesare Salvi, Presidente del Gruppo della
Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo
al Senato della Repubblica
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Partecipano: associazioni, movimenti e partiti della Sinistra e dell’Ulivo.
Sono invitate ad intervenire tutte le persone interessate a discutere sull’unità e sul rinnovamento della sinistra.

lunedì 21 maggio 2007

POLITICA ED ANTIPOLITICA
di
Carlo Dore jr.

Nell’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” del 20 maggio, Massimo d’Alema, chiamato a tracciare un bilancio del primo anno di governo dell’Unione, ha rilevato che la stagione attuale risulta caratterizzata da una profonda crisi del rapporto tra politica e cittadini, assai simile, nei suoi connotati essenziali, a quella che attraversò il Paese durante la bufera di Tangentopoli. Insomma, per il Ministro degli Esteri, un pericoloso fantasma si aggira per l’Italia: il fantasma dell’Antipolitica; e questo fantasma deve essere neutralizzato, prima che la neonata Seconda repubblica piombi nel caos più totale.
Tuttavia, come giustamente ha osservato Cesare Salvi, è a questo punto necessario domandarsi da quale fonte il fantasma dell’Antipolitica trae vita; occorre, in altre parole, comprendere quali siano le cause dell’effettiva, crescente sfiducia che i cittadini manifestano verso la res publica.
Per offrire una risposta adeguata ad un simile interrogativo, è a mio parere opportuno fare un passo indietro, per procedere ad una riflessione di ampio respiro. Si è infatti più volte affermato come, durante il ‘900, il nostro Paese è stato squassato da conflitti laceranti, pervaso da ideali elevati, infiammato da passioni intense, diviso da battaglie civili di enorme portata. Gramsci e don Sturzo, Pertini e Gobetti, Moro e Berlinguer costituiscono le più emblematiche icone di questa appassionante stagione, la più chiara rappresentazione di quel sistema di valori che della migliore politica costituiva il prodotto.
Ma questo sistema di valori è stato gradualmente affogato dai mille scandali, dalle sanguinose stragi, dagli intricati misteri che, all’ombra della Milano da bere, hanno fatto da cornice all’epopea del CAF, all’instaurazione di quel sistema corruttivo che, cavalcando l’onda lunga dell’anticomunismo, aveva individuato nella fitta rete di rapporti che intercorreva tra i partiti, il mondo economico-imprenditoriale e determinati settori della malavita il fulcro stesso della vita dello Sato.
In questo senso, Tangentopoli ha costituito un’occasione: l’occasione per la “Politica” di riprendersi lo spazio che il malcostume di certi “politicanti” le aveva negato. Ma paradossalmente la rivoluzione di Mani Pulite ha coinciso con l’ascesa di Berlusconi, ovvero con il trionfo dell’Antipoltica, di un leader di cartapesta capace –con il suo sorriso da copertina e l’arroganza che solo il potere economico più sfrenato può attribuire- di rendersi espressione del popolo del Grande Fratello come degli adepti di Baget Bozzo, degli squadristi della nuova destra come dei colletti bianchi di Villa d’Este, dei patinati Dell’Utri Boys come delle camice verdi di Borghezio e Calderoni.
Invece di contrastare l’imperversare del Caimano attraverso una strategia di governo incisiva e coerente con i valori di cui dovrebbe essere espressione, il centro-sinistra è finora caduto nell’errore (già rivelatosi fatale nel 2001) di cedere proprio alla tentazione del dalemismo, alla logica del graduale annacquamento dei grandi ideali, del “sereno confronto istituzionale” preferito allo “scontro frontale”, dell’irresistibile vocazione per l’inciucio.
Il disegno del PD, di un partito in grado, proprio in quanto privo di una chiara ideologia di riferimento, di riunire sotto lo stesso tetto cattolici integralisti e (presunti) paladini della laicità dello Stato, ex comunisti ed ex democristiani, imprenditori senza scrupoli e vecchi leoni di piazza costituisce la più netta affermazione di questa logica, un'altra vittoria dell’Antipolitica sulla Buona Politica.
Denunciando la sfiducia con cui i cittadini si rivolgono alle Istituzioni, la costante diffusione che incontra la massima del “tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera”, il Ministro degli Esteri guarda ora con orrore al mostro che egli stesso ha contribuito a creare, e manifesta la necessità che questa stagione di crisi venga superata al più presto, prima che la medesima si completi con la totale erosione dell’attuale classe dirigente.
Ma per riuscire in questo obiettivo, occorre che la politica riacquisti la sua dimensione di veicolo di passioni e di valori, di strumento preposto ad assecondare le esigenze dei cittadini e non di più o meno consistenti gruppi di potere. In questo senso, l’esperienza di Sinistra Democratica, di un movimento che, partendo dal basso, si propone di creare, con la forza delle idee, quella sinistra unita e senza aggettivi di cui da troppo tempo l’elettorato progressista auspica l’attuazione, potrebbe rivelarsi funzionale al perseguimento del suddetto obiettivo. Dopo anni di dalemismo, il progetto elaborato da Fabio Mussi potrebbe davvero costituire una prima risposta di effettiva partecipazione alle logiche dirigiste che troppo spesso hanno caratterizzato il funzionamento dei partiti tradizionali, un primo momento di riaffermazione della Buona Politica sul vuoto dell’Antipolitica.

mercoledì 16 maggio 2007

PER UNA SINISTRA CHE VUOLE ESISTERE ANCORA
di
Tonino Dessì
Dedico a Sègoléne Royal anche e ancor più dopo la sua sconfitta, le mie riflessioni sulla sinistra in Italia. Lo faccio perché il mio désir d’avenir (lo slogan di Sègoléne) è una sinistra italiana che abbia un volto autentico, bello, ottimista, tollerante, sorridente e non corrusco o furbesco, come quelli che da anni conosco nella sua dirigenza, quasi totalitariamente maschile. E perché un volto come quello lo abbiano la Repubblica in cui vivo, nata dalla costituzione antifascista e l’Europa unita, insieme alla quale, nei primi mesi di quest’anno, ho compiuto cinquant’anni. Chissà perché: Sinistra, Repubblica, Costituzione, Europa, sono tutti termini declinati al femminile. Tutti termini di appartenenza e nello stesso tempo di creatività.Francesco Rutelli ha voluto liquidare col risultato francese non solo il campo del socialismo europeo, ma la sinistra nel suo insieme, in Europa come in Italia, quale forza costitutiva e ancora dinamica del vecchio continente e dei suoi Paesi. Avrebbe preferito un ballottaggio tra Sarkòzy e Bàyrou e anzi, al contrario di Zapatèro, vi ha davvero puntato, dando al candidato centrista, da leader del nostro nascente Pd, il proprio appoggio ufficiale, nel silenzio totale dei Ds, ormai inermi e in disarmo. Proprio per questo non concordo con molte analisi italiane, anche da sinistra, sulla sconfitta dei socialisti francesi. Sarkozy ha vinto le elezioni, ma diciassette e più milioni di elettori hanno riportato, dopo dieci anni, i socialisti al ballottaggio, mentre sono state battute sia le velleità centriste sia le frantumazioni della gauche estrema. Una cosa è dire che dobbiamo allearci col centro democratico, altra è che da esso dobbiamo farci sostituire.Il punto è che, in Francia come in Italia, una sinistra esiste, resiste e vuole esistere ancora, più ancora che nel sistema politico, nel bisogno profondo delle rispettive società. In questi giorni due temi, connessi all’intima essenza di una società civile, sono intensamente dibattuti sulla stampa italiana: quello della sicurezza e quello dei modi d’essere delle unioni tra coppie di diverso o dello stesso sesso. Law and order, tolleranza zero, sono invocati dal nuovo Pd (e per di più da sindaci della sinistra: Chiamparino, Veltroni, persino Cofferati) contro immigrati e tossicodipendenti, quasi con la stessa declinazione della destra. Una delle ministre cattoliche più amate (fino a ieri) dallo stesso popolo della sinistra, Rosy Bindi, si scaglia contro la legalizzazione delle unioni tra gay in difesa della famiglia quale istituzione fondata esclusivamente sul matrimonio eterossessuale. Poca attenzione sta residuando per lo stupro collettivo (uno dei tanti) e il tentato omicidio che un gruppo di ragazzi italiani hanno perpetrato su una coetanea, anch’essa italiana. Poca attenzione residua sul fatto che la criminalità organizzata italiana controlla come mai è avvenuto prima, quasi interamente, il territorio e la vita di quattro regioni (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia), in forme che paiono meno eclatanti rispetto al recente passato (ma guardate cosa ha rivelato Rai3 - Report, sul rapporto tra politiche pubbliche clientelari dell’occupazione e business camorristico dei rifiuti nel napoletano), solo perché ormai la malavita non richiama più l’attenzione nazionale su di sé attentando a personaggi eccellenti delle istituzioni. Di cosa deve avere più paura oggi un Paese europeo che voglia mantenersi aperto e dinamico, se non della compressione forzosa del disagio derivante da vecchie e nuove disuguaglianze, perseguita a costo di limitare i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione, sotto la spinta di una pulsione all’intolleranza? Di cosa ha più bisogno un Paese europeo che voglia mantenersi democratico e civile, se non della ritrovata egemonia (se l’espressione gramsciana spaventa troppo, potremmo usare quella di “forza morale e culturale di persuasione”) di una politica capace di governare la complessità sociale mitigando le disuguaglianze - anzitutto quelle derivanti dall’assenza o dalla precarietà del lavoro- e trasformando l’assenza di speranza, che da esse deriva, nelle opportunità offerte dalla valorizzazione delle diversità? E la durezza e la certezza della legge, vanno usate solo con i deboli o sono anzitutto il mezzo fondamentale da applicare per ricondurre alle regole i forti? L’aspirazione all’uguaglianza nella libertà, proprio nell’era dell’economia globalizzata e sempre più immensamente diseguale in cui l’Europa è immersa, resta la corrente profonda storicamente interpretata dal socialismo e tutt’altro che sopita, ancorché non realizzata dalle tragiche esperienze statuali del comunismo postbellico.In questo sta l’essere di sinistra proposto dal Movimento nato a Roma il 5 maggio, a seguito del processo fondativo del Pd e in disaccordo con esso. Sinistra senza troppi aggettivi, se non quello del richiamo al socialismo europeo, evocato in quanto collante materiale di diverse vicende culturali, sociali, politiche e di governo contemporanee, caratterizzate dalla permanenza nell’alveo della democrazia formale, ma anche dall’impegno per la sua evoluzione in democrazia sostanziale, interna ed internazionale (si leggano i brevi, splendidi, articoli 1, 3, 4, 10, 11, 41, della costituzione della repubblica italiana), più che come simbolica appartenenza ad un’Internazionale o ad un virtuale partito socialista continentale.L’idea è quella di scongiurare la scomparsa cui le espressioni politiche della sinistra italiana, dopo lo scioglimento di quella maggiore, i Ds, potrebbero ineluttabilmente avviarsi, qualora non venisse risolta la loro perdurante diaspora. Una missione quasi impossibile, considerato che Sdi, Prc., Pdci, Verdi, sono pur sempre partiti-apparato e/o partiti-istituzioni e che per ora il movimento di Mussi, Salvi e (?) Angius sta appena cominciando a metabolizzare il fatto di non essere più una corrente congressuale dei Ds e di dover camminare sulle proprie gambe. Il tema della “forma” che una soggettività politica nuova ed unita dovrebbe assumere, per superare la diaspora, dovrebbe essere, a mio avviso, tra quelli prioritari da inserire nell’indice dei contributi che il nuovo movimento potrebbe dare alla sinistra italiana, al Paese, alla sua società, alle istituzioni. Confederazione, Federazione, Unità d’azione: riemergono termini, questi sì, obsoleti e insoddisfacenti, tipici di chi non vuol mettere in discussione nè in gioco sé stesso. Le alternative Partito/ Movimento /Movimento di Movimenti: peggio che mai. Occorre capire piuttosto come ricostruire qualcosa che è entrato in crisi da molto tempo, ossia il rapporto tra cittadini e organizzazioni politiche e quello tra programma fondamentale (non occorre cercarne di nuovi: in fondo basta la costituzione e dovremo anzi difenderla con i denti dal relativismo a-costituzionale del Pd, che legittima ex post il revisionismo anticostituzionale di Berlusconi, Fini e Bossi) e azione delle rappresentanze, sia quando si è all’opposizione, sia quando si è al governo. Come realizzare l’obiettivo programmatico secondo cui “tutti i cittadini possono associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (sempre la cara, giovane, ancorchè sessantenne Carta, articolo 49), superando, anzi sconfiggendo in breccia le espropriazioni antidemocratiche da parte di apparati, la gelosa autoconservazione di gerontocrazie avide, le resistenze maschili alla democrazia di genere, i tradimenti dell’etica consistenti nel predicare determinati valori e praticarne esattamente di opposti? Non si tratta di opera da poco. Ma per meno non vale, diciamolo fin d’ora, neppure la pena di impegnarsi. E in Sardegna? Mah: anche qui, de te fabula narratur, cara sinistra sarda, il cui autonomismo si è concretato in elemento aggiuntivo di autoconservazione, spingendo il tuo popolo all’evocazione di un principe che sconfiggesse gli oligarchi. Quello stesso popolo, ora, assiste passivo al fatto che principe ed oligarchi si stanno asserragliando (pur continuando a ringhiarsi a vicenda) nello stesso fortino, i cui merli e ponti levatoi difficilmente salveranno loro e noi dalle conseguenze sociali e politiche di un’esperienza di governo che conclusivamente dovesse avere un bilancio deludente. Né, proprio ora, in un momento che richiederebbe riflessioni più ampie, rivolte alla società sarda, al suo presente e al suo futuro, da considerare unitarie solo a condizione che siano innovatrici, può appassionare una nuova scissione, per di più compiuta in sede meramente istituzionale, di consiglieri regionali di Pdci ed ex Prc, più l’ex segretario di quella che considero la peggiore performance politica dei Ds sardi dalla loro fondazione: persone che appaiono prevalentemente mosse dalla ricerca di prossimi, autoconservativi posizionamenti elettorali. Anche nell’Isola ci sarebbe già oggi, davvero, bisogno d’altro. Vedremo

martedì 15 maggio 2007

Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo non c’entra niente con il gruppo di Sinistra Autonomista costituito in Consiglio Regionale

di

Gianluca Scroccu

Leggendo l’articolo di Giorgio Melis e quello di Michele Fioraso su questo giornale credo sia opportuno fare qualche precisazione sul ruolo di “Sinistra Democratica per il socialismo europeo”. Il movimento a cui ho aderito come tanti altri ex della mozione Mussi non ha nulla a che fare con la costituzione, del tutto autonoma, del gruppo di “Sinistra autonomista” in Consiglio Regionale. Durante l’ultimo congresso dei DS la maggior parte di noi ha aderito alla mozione che ha candidato l’attuale ministro dell’Università alla segreteria, conducendo una battaglia di opposizione alla costituzione del Partito Democratico (giova ricordare, invece, che in Sardegna la mozione Angius ha aderito per la maggior parte al Partito Democratico, al di là delle scelte del suo leader nazionale e dello stesso Renato Cugini). “Sinistra Democratica per il socialismo europeo” è un movimento totalmente nuovo, che non si interessa delle beghe interne degli altri soggetti politici: a noi non importa della collocazione geostrategica in Consiglio Regionale di Tizio o Caio. Abbiamo scelto di non aderire al Partito Democratico perché non ne condividiamo il progetto, le prospettive e il metodo di realizzazione. Vogliamo essere un movimento organizzato capace di promuovere l'unità e il rinnovamento vero e profondo della Sinistra in modo da mantenere l'orientamento del Governo nazionale, anche dopo la nascita del Partito Democratico, saldamente ancorato ai valori del centrosinistra e dell'Ulivo, in modo da evitare il profilarsi di svolte neo-centriste È in gioco l’avvenire, in Italia e in Sardegna, della sinistra: possibile che sia tutto risolto mettendo insieme tre consiglieri di Rifondazione, un ex DS e un Comunista Italiano? No di certo: il lavoro da fare è totalmente slegato da ogni ricollocazione nell’emiciclo di via Roma, che sembra peraltro dettato esclusivamente da logiche interne. Ho già scritto su questo giornale che ciò che più manca alla sinistra, compresa quella sarda, è il recupero del concetto di partecipazione e che c’è bisogno di trovare un nuovo equilibrio tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipata anche per rinnovare partiti che oramai vivono solo in funzione delle Istituzioni.
Il primo obiettivo del nostro Movimento è allora quello di tentare di lavorare per ricostruire il tessuto connettivo tra politica e società, a partire dalla riforma dei macro e dei microprocessi della politica (riforma dei partiti, rotazione negli incarichi, stop alle logiche del correntismo, etica della responsabilità e assoluta intransigenza morale). Bisogna combattere questa distribuzione su una scala meramente verticale dei processi democratici e ridistribuire il potere e il governo dei problemi su un piano orizzontale. Solo così si potranno affrontare con nuovo slancio la questione ecologica, quella della piena parità di genere e dei nuovi diritti di cittadinanza, la difesa del valore sociale del lavoro, la tutela e la valorizzazione della scuola e dell’Università pubblica, la ricerca di un capitalismo fondato sull’impresa responsabile e non su un modello di sviluppo basato solo sulla rendita e la speculazione finanziaria. È questa la chiave su cui si gioca il futuro della sinistra del XXI secolo; ed è su questo che vogliamo impegnarci noi di “Sinistra Democratica”. Non ci interessa sapere se verrà riconfermato l’Assessore al Lavoro o se qualcuno potrà ricandidarsi per la terza volta come consigliere regionale nel 2009, né possiamo accettare nomine di generali (peraltro oramai invisi ai propri soldati) che magari vogliono andare a Versailles a trattare per conto loro. Non è questo il rinnovamento profondo che auspichiamo.
Alle donne e agli uomini che hanno scelto di aderire a “Sinistra Democratica per il socialismo europeo” interessa sapere se si avvierà un processo di costruzione di una sinistra capace di ascoltare i cittadini (a partire da chi, in questi anni, si è allontanato dalla politica) e coinvolgerli nei processi decisionali. Per questo vogliamo dialogare e confrontarci liberamente con tutto il mondo progressista isolano, ma avendo ben chiaro che tutto questo si può fare solo con un grande sforzo culturale fatto di impegno e rigore; le fughe in avanti che rimangono solo sul piano istituzionale rischiano invece di richiamare solo vecchi schemi e la riproposizione di logiche di difesa della propria rendita personale. Noi non sottovalutiamo la difficoltà del nostro progetto (presto eleggeremo un coordinatore e un coordinamento regionale di SD, come abbiamo già fatto in molte realtà provinciali, visto che chi ha rivestito questa carica per la mozione Mussi ha evidentemente esaurito le sue mansioni con il congresso DS), ma se non proviamo ad iniziare una lunga battaglia capace di legare cultura e politica e individuare nuovi orizzonti rischiamo di consegnare il paese, e la nostra regione, alle logiche e agli interessi del populismo e dell’antipolitica. Vogliamo impegnarci perché i partiti non possono essere semplici simulatori di politica, ma tornino ad essere strumenti di partecipazione dei cittadini e di formazione di una nuova classe dirigente. Questa è la missione, anche in Sardegna, di “Sinistra Democratica per il socialismo europeo” .

lunedì 14 maggio 2007

ANCHE IN SARDEGNA SI COSTITUISCE SINISTRA DEMOCTATICA PER IL SOCIALISMO EUROPEO
a cura di
Tonino Dessì
Si sono riuniti nei giorni scorsi sia i delegati dell’area congressuale “Mussi” della provincia di Cagliari (giovedì 10 maggio, a Cagliari), sia i delegati della medesima area al congresso regionale dei D.S (ieri, 12 maggio, a Tramatza, alla presenza di Nicola Manca, del comitato promotore nazionale), per avviare anche in Sardegna la costituzione in movimento autonomo della Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo.> A Cagliari è stato eletto il coordinatore provinciale, Enrico Palmas (giovane avvocato), affiancato da un coordinamento composto da quattro uomini e quattro donne. > A Tramatza si è deciso di rappresentare all’Assemblea Congressuale dei D.S. (convocata per domani, 14 maggio) che i delegati dell’area Mussi non entreranno negli organismi dirigenti regionali di questo partito, ormai avviato verso lo scioglimento nel P.D. e che Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo prende vita formalmente come soggetto politico autonomo anche nell’Isola, non antagonista ai D.S. e al nascente P.D., ma nettamente distinto da essi. > Nelle prossime settimane Sinistra Democratica eleggerà anche a livello regionale un proprio coordinatore, affiancato da un coordinamento. Nella prima decade di Giugno si terrà la manifestazione pubblica di fondazione del movimento.> “Non nasce l’ennesimo piccolo partito della Sinistra”, questo il senso comune dei venti interventi alla riunione regionale, cui hanno partecipato un centinaio di persone, in prevalenza giovani e donne, “ma un movimento organizzato che vuol promuovere l’unità e il rinnovamento della Sinistra. L’unità per mantenere l’orientamento del Governo nazionale, anche dopo la nascita del P.D., saldamente ancorato ai valori del centrosinistra e dell’Ulivo, affinchè non si profilino svolte neo-centriste. Il rinnovamento, perché obiettivo della Sinistra deve essere quello di ricostruire una vita democratica nelle sue organizzazioni, le quali rischiano altrimenti di ridursi anch’esse a strutture di apparato, tanto più anacronistiche in quanto elettoralmente marginali. Per questo il movimento si organizzerà promuovendo dovunque confronti unitari sui problemi politici e sociali sardi, anzitutto quelli del lavoro e dei diritti sociali, a partire dai territori e dalle espressioni di base, evitando fin dall’inizio ogni confusione con vicende istituzionali derivanti da scissioni interne alle forze politiche della sinistra esistenti o dei loro gruppi in Consiglio regionale o da rotture tra le medesime forze politiche".
Se prendiamo il meglio della nostra storia l’unità è possibile

di
Andrea Pubusa

Di una cosa dobbiamo convincerci tutti a sinistra, e cioè che se puntiamo a salvaguardare puntigliosamente le nostre identità faremo un bel flop. La storia del ‘900 è così travagliata, ricca di rotture e divisioni che guardare le cose dallo specchietto retrovisore non ci farà fare molti passi in avanti. Eppure il socialismo ed il comunismo italiano non sono solo un cumulo di errori, come di tutto rispetto è la tradizione liberalsocialista. Il risultato incontestabilmente più positivo e più grande in Italia di questi filoni è la Costituzione repubblicana, non a caso nata dal quell’ineguagliato movimento unitario che è stata la Resistenza. Ed allora perché non assumere a base del processo unitario a sinistra le idee forza della nostra Carta fondamentale, leggendola con gli occhi dei comunisti, dei socialisti e degli azionisti di quella mirabile e appassionata stagione e aggiornandola con quanto di meglio e di nuovo ha prodotto la cultura della sinistra in questi 60 anni. Può sembrare minimalista. Ma lo è davvero? Pensate – parafrasando la Costituzione - ad un Partito democratico fondato sul lavoro, nel quale la sovranità spetti agli iscritti e agli elettori. Prese sul serio queste idee-forza ci danno un soggetto politico del tutto nuovo perché se c’è un carattere che i partiti, anche quelli di sinistra, non hanno avuto in passato è il carattere democratico. Oggi sono agglomerati di un notabilato politico che pensa a perpetuare se stesso nelle istituzioni e nei centri di potere, senza alcuna missione generale. Studiare e praticare con rigore la democrazia interna è un fatto del tutto rivoluzionario. Come lo è fondare il nuovo soggetto politico sul lavoro, assumendo così a sua idea-forza l’elemento di critica e antitesi più radicale e irriducibile al capitalismo. Non è un caso che la deriva attuale (ad esempio della maggioranza DS e, già si vede, del PD) è riconducibile all’assunzione del lavoro come uno dei tanti punti di riferimento, ma non come quello principale e assorbente.
Che dire poi del principio di eguaglianza che nel testo costituzionale imprime un movimento perenne alle forze che lo prendono seriamente a riferimento, ponendo al centro della loro azione una dialettica permanente fra i risultati acquisiti e quelli da raggiungere. Moto permanente e perenne contro le tragiche tendenze di adagiarsi sulle posizioni di potere o di governo raggiunte. Contro l’idea della società socialista come società compiuta e soltanto da difendere (quante tragedie in quest’idea!) Ed ancora dialettica che coinvolge tutti i soggetti istituzionali e politici, ma innanzitutto – come si legge nell’art. 3 della Costituzione – si fonda sulla partecipazione dei lavoratori, che così cessano di essere i destinatari delle conquiste delle forze progressiste per esserne loro stessi i protagonisti. In fondo, sta in questa tensione permanente verso l’eguaglianza l’essenza del socialismo, e su questa idea tutti possiamo convergere. Diviene così anche del tutto normale e non più oggetto di discussione che la nuova forza della sinistra deve realizzare la parità di genere, scegliendo – per non sbagliare – in ogni occasione in cui si debba farlo prima le donne e poi gli uomini.
Tutto questo dev’essere attraversato dal pacifismo, dall’ambientalismo e dalla nuova frontiera dei diritti, campo di ricerca e di lotta che è forse il tratto più caratterizzante e ricorrente delle forze della sinistra almeno in Italia e che arricchisce il bagaglio originario del movimento operaio e socialista.
Ecco, qui, in una lettura di sinistra delle idee forze della nostra Carta fondamentale stà la matrice comune di tutte le forze a sinistra del PD ed è su di essa che in positivo possiamo trovare il programma comune per unirci, dai socialisti ai comunisti agli ambientalisti, assumendo tutti una nuova e più ricca identità. Poi per fortuna non avremo tutti le stesse idee né le stesse propensioni per cui questo nuovo partito sarà vivo perché attraversato da tutte le tensioni pratiche e ideali che si agitano nella società. E qui il carattere democratico e aperto del nuovo soggetto deve riuscire a far sì che questa dialettica si svolga nel rispetto e nell’arricchimento reciproco anziché in laceranti e mortificanti lotte di fazione.
E’ inutile dire che una forza del genere si da una pratica e delle regole che impediscono la formazione di oligarchie, di mandarini e di gerontocrazie, che hanno sempre caratterizzato le forze della sinistra in particolare in Italia. La politica come funzione e le cariche istituzionali come incarichi pro tempore favoriscono, col rinnovo reale e continuo dei gruppi dirigenti, la circolazione delle idee e l’acquisizione di energie fresche e dinamiche. Non dimentichiamo che tutte le rivoluzioni o le fasi d’intenso riformismo sono opera di giovani e di giovanissimi.
In definitiva di una cosa dobbiamo convincerci tutti a sinistra, e cioè che per unirci dobbiamo anzitutto compiere in noi stessi, nel nostro modo di organizzarci e lottare insieme, quella rivoluzione culturale e morale di cui ci ha detto il pensatore di Ales (oggi tanto ricordato nelle cerimonie quanto dimenticato nella prassi). E’ difficile, ma dobbiamo provarci.
La sfida di Sinistra Democratica comincia anche in Sardegna

di

Gianluca Scroccu


Con la bella e partecipata manifestazione del 5 maggio è nato ufficialmente il movimento di “Sinistra Democratica per il socialismo Europeo”. La sfida che si presenta è grande: lavorare, con un rinnovato impegno, per costruire una sinistra di governo capace di misurarsi sul terreno concreto di un rinvigorito socialismo democratico a vocazione europea. Una grande forza socialista unitaria saldamente ancorata all’Europa, riformatrice nella pratica di governo e radicale nei principi, a partire dalla coerenza tra ciò che si promette e ciò che si realizza. I problemi da affrontare sono molteplici. Il primo è l’impegno per l’affermazione su scala globale di un nuovo modello di sviluppo che contrasti l’attuale sistema antidemocratico di questa globalizzazione che così com’è produce solo asimmetrie economiche e grandi disuguaglianze; quella che serve è dunque una sinistra che si impegni per riequilibrare i rapporti fra l’economia finanziaria e quella reale, assicurando un’autentica concorrenza fra le imprese e migliorando i contenuti qualitativi dello sviluppo economico.
Questo nuovo socialismo deve basarsi principalmente sul tema della partecipazione, a partire dalla piena parità di genere e dall’assunzione di responsabilità istituzionali e di governo di primo piano da parte delle donne. Serve anche una nuova etica della convinzione e della responsabilità, intesa come la capacità dei cittadini di essere soggetti e non oggetti della politica. Una sinistra dove non si viva di politica ma per la politica, fondata sulla trasparenza, l’onestà e la chiarezza di propositi insegnataci in passato da grandi uomini come Enrico Berlinguer e Sandro Pertini. A partire dall’argine da porre agli aspetti più degenerativi quali i costi della politica e le logiche del correntismo. La politica del XXI secolo non può essere vissuta come mestiere perché è difficile progettare se vince la paura di perdere l’indennità o l’auto blu. Serve allora un impegno serio e severo, non la ricerca di una rendita a vita: basta con questi partiti che assomigliano sempre di più a strutture neofeudali. E in Sardegna ne abbiamo un disperato bisogno, perché l’Autonomia si costruisce solo se la politica è forte e ricca di respiro programmatico, capace in questo modo di interloquire in maniera paritaria con la Giunta Regionale; la Sardegna non può misurarsi con l’Europa e il mondo sotto lo scacco della paura, ma solo con il coinvolgimento aperto, critico e partecipato del popolo sardo e un corretto rapporto fra partiti e Istituzioni.
In questi giorni in cui richiamiamo alla memoria il 70° anniversario della morte di Gramsci è doveroso ricordare il suo insistere sul legame inscindibile tra cultura e politica: quest’ultima infatti non porta da nessuna parte se non si nutre quotidianamente attraverso un laborioso e concreto studio della società e dei suoi problemi. Conoscere le dinamiche sociali, analizzarle criticamente per individuare dei confini e ripensare il presente per fornire un orizzonte ispirato alla eguaglianza, alla democrazia e alla libera convivenza: è questa, in sintesi, la piattaforma programmatica che “Sinistra Democratica per il socialismo europeo” dovrà mettere in pratica in questo nuovo progetto.
SINISTRA DEMOCRATICA: PROBLEMI E PROSPETTIVE
di

Carlo Dore jr.

1) OLTRE IL PARTITO DEMOCRATICO; 2) C’E’ BISOGNO DI “SINISTRA”: DAL CAIMANO A PRODI, PERDITA DI CONSENSI E PERDITA DI IDENTITA’; 3) FASSINO, RUTELLI, BAYROU E SEGOLENE; 4) SINISTRA DEMOCRATICA: IDENTITA’ E RINNOVAMENTO NEL SEGNO DEL “SOCIALISMO GENTILE”.


1) OLTRE IL PARTITO DEMOCRATICO

La conclusione della lunga stagione congressuale che ha coinvolto i principali partiti del centro-sinistra impone di formulare alcune riflessioni in ordine alle conseguenze che le scelte assunte dai vertici dell’Unione potranno avere sugli equilibri interni alla coalizione che sostiene il Governo.
In particolare, di fronte alle incertezze che tuttora caratterizzano la futura collocazione del Partito Democratico, i militanti che hanno scelto di non aderire alla proposta avanzata da Rutelli e Fassino hanno il dovere di interrogarsi sulla effettiva possibilità di dare vita ad un’alternativa credibile al nuovo soggetto politico. In altre parole, occorre comprendere se, oltre le Colonne d’Ercole del Partito Democratico, esiste spazio per una forza politica in grado di rappresentare davvero i valori della sinistra tradizionale, favorendo la coesione di tutte le forze progressiste presenti nel Paese.

2) C’E’ BISOGNO DI “SINISTRA”: DAL CAIMANO A PRODI, PERDITA DI CONSENSI E PERDITA DI IDENTITA’.

Alcuni passaggi della relazione pronunciata da Diliberto durante l’assise del suo partito hanno messo in luce una volta di più una necessità già emersa in tutta la sua evidenza nei dibattiti che hanno preceduto la kermesse del Mandela Forum: l’Italia ha bisogno di una sinistra forte, di una sinistra capace di difendere in maniera incisiva quell’insieme di valori (quali quello della giustizia, della laicità, della tutela del lavoro, dell’equità sociale) che da sempre rappresentano il sostrato ideologico sulla base dei quali sono stati gradualmente elaborati i principi su cui si fonda il moderno socialismo europeo.
La vertiginosa escalation di morti sul lavoro, l’assenza di misure idonee a mettere i magistrati nella condizione di svolgere con la necessaria efficienza le prerogative ad essi attribuite dalla Carta Costituzionale, la manifesta incapacità dei leaders dell’Ulivo di rispondere agli anatemi quotidianamente scagliati in confronto delle Istituzioni democratiche da una Chiesa sempre più integralista nelle sue posizioni non sono altro che semplici indici rivelatori della sussistenza di una simile necessità.
Dopo i tristi cinque anni di governo del Caimano, gli elettori hanno conferito a Prodi il preciso mandato di caratterizzare l’azione del suo governo attraverso una forte discontinuità rispetto alle determinazioni assunte dal precedente Esecutivo. Questa speranza è però rimasta finora delusa, anche in considerazione del fatto che sul Governo in carica hanno finito con l’incidere per forza di cose le incertezze e le ambiguità serpeggianti all’interno dei DS, eternamente sospesi tra l’esigenza di difendere l’eredità di Gramsci e Berlinguer e la tentazione di assecondare le pulsioni neoliberiste di alcuni loro esponenti.
Così, mentre D’Alema continua ad individuare in Berlusconi “l’interlocutore credibile” (sic!) con cui avviare un sereno confronto istituzionale, non solo i parlamentari dell’Ulivo ancora non hanno disposto l’allontanamento del condannato Previti dai banchi di Montecitorio, ma hanno accettato passivamente che il ministro Mastella attribuisse un incarico di primo piano a quel sodale dello stesso Cavaliere di Arcore che (non più di dieci anni fa) manifestava l’intendimento di “impiccare Borrelli ad un pennone”.
Di fronte alla mancata abrogazione delle leggi ad personam, alle incertezze che circondano l’approvazione della legge sul conflitto di interessi, ad una strategia di coalizione nel complesso poco convincente in quanto priva di un’impostazione ideologica chiara, il malcontento del popolo progressista ha trovato nei fischi degli operai di Mirafiori e nelle dure parole pronunciate da Epifani al cospetto dello stato maggiore diessino la sua più chiara rappresentazione.
In particolare, il messaggio proposto dal Segretario della CGIL è caratterizzato da un significato apparso ai più inequivocabile: c’è bisogno di sinistra, per riconquistare i consensi perduti nell’elettorato e per superare la condizione di profonda delusione in cui i militanti dei principali partiti dell’Unione attualmente versano.

3) FASSINO, RUTELLI, BAYROU E SEGOLENE

Le istanze proposte da componenti storiche dell’elettorato non sono state però in questi anni assecondate dai vertici della Quercia, i quali, dando formalmente avvio al processo di fusione con la Margherita, hanno manifestato l’intendimento di fondare il nascente Partito Democratico proprio su quella instabile palude di contraddizioni ed incertezze in cui gli stessi DS hanno disperso, dal 1996 ad oggi, approssimativamente tre milioni di voti.
Come in precedenza accennato, la collocazione internazionale del Partito Democratico costituisce, non a caso, ancora un mistero degno del più intricato romanzo giallo, destinato però a risolversi non già grazie ad un colpo di scena degno di Agatha Christie, ma più semplicemente attraverso la squallida ed italianissima tendenza all’inciucio.
Mentre infatti gli esponenti della mozione – Fassino si sono affannati a spiegare , nel corso dei vari congressi di sezione, a platee sempre più annoiate e rassegnate che il PD non potrà che costituire una componente imprescindibile del socialismo europeo , il nettissimo “mai nel PSE” con cui Rutelli si è guadagnato l’ovazione del popolo dei teodem collide perfino con la prospettiva di “andare oltre il PSE” delineata nell’approssimativo manifesto redatto dagli ormai famosi dodici saggi.
Da questa intricata sequenza di proclami, rettifiche, smentite e controsmentite, una sola verità sembra emergere con chiarezza: il modello di riferimento a cui il PD risulta ispirato nella sua realizzazione è al momento identificabile più nel Partito Democratico americano che nelle grandi forze politiche della tradizione progressista europea. Così ragionando, sembra difficile contestare l’assunto in base al quale il PD non risulterà qualificabile come un partito di sinistra, posto che i Democratici americani sono portatori di un patrimonio ideologico e culturale non coincidente con quello che tuttora caratterizza le più importanti realtà della sinistra in Europa.
La correttezza di questa affermazione trova ulteriore conferma nelle vicende che hanno caratterizzato le ultime fasi della campagna per le elezioni presidenziali in Francia: premesso che Rutelli e Prodi non hanno fatto mistero di sostenere la candidatura del moderato Francois Bayrou nella corsa all’Eliseo, lo stesso leader centrista (pur rendendo palese il suo intendimento di “non votare per Sarkozy” in occasione del turno di ballottaggio) non ha del pari offerto il suo pieno appoggio a Segolene Royale proprio in considerazione del fatto che il “suo” Partito Democratico intende porsi in una condizione di sostanziale “equidistanza” tanto dai gaullisti quanto dalle forze che afferiscono alla Gauche.

4) SINISTRA DEMOCRATICA: RINNOVAMENTO E IDENTITA’ NEL SEGNO DEL “SOCIALISMO GENTILE”.

Una volta chiarito, sulla base degli argomenti appena esposti, che il PD sembra destinato ad assumere un impostazione di stampo fondamentalmente liberaldemocratico, risulta evidente come questo nuovo soggetto politico non sarà per sua natura in grado di assecondare quel “bisogno di sinistra” a cui si è in precedenza fatto riferimento.
In tal senso, l’idea di Fabio Mussi di dare vita ad un movimento della “Sinistra democratica” non può che essere ispirata al perseguimento di un duplice obiettivo: da un lato, il disegno elaborato dal Ministro dell’Università mira ad inserire nel panorama politico italiano una forza che, collocandosi appunto a sinistra del PD, possa costituire un punto di riferimento per tutti quegli elettori i quali, in ragione delle idee di cui tuttora sia affermano portatori, rifiutano di accordare la loro fiducia ad un semplice cartello elettorale frutto di una pura soluzione di compromesso. D’altro lato, il progetto in questione vuole contribuire a creare un clima dell’unità tra le varie realtà progressiste presenti nel Paese, nel tentativo di superare quella condizione di storica frammentarietà che, dal congresso di Livorno del 1921, da sempre contraddistingue la sinistra italiana.
Così concepito, il progetto della Sinistra democratica deve per forza di cose essere attuato alla luce di due valori fondamentali: quello dell’identità e quello del rinnovamento. Rimanendo fortemente ancorato al già descritto sistema di valori che costituisce il patrimonio ideologico e politico della c.d. sinistra tradizionale – sistema di valori rappresentato al meglio dalle scelte che hanno caratterizzato l’azione di uomini come Gramsci, Berlinguer, Pertini e Salvador Allende - , il movimento a cui l’attuale minoranza diessina intende dare vita guarda con orgoglio al proprio passato per poter individuare con coerenza gli obiettivi futuri, nel tentativo di dare attuazione anche in Italia a quella forma di “socialismo gentile” attraverso cui Zapatero ha avviato (con riferimento a materie come i diritti civili, le pari opportunità, la libertà di informazione) una vera e propria rivoluzione culturale nell’abito della, pur rigidissima, società spagnola.
Sotto un diverso aspetto, si è più volte avuto modo di rilevare come l’attuale crisi dei DS sia in realtà qualificabile come la crisi di quel gruppo dirigente che, reggendo da sedici anni le sorti della Quercia, non ha esitato ad affogare il partito in una sorta di indecifrabile contenitore moderato pur di continuare ad assicurare ai suoi esponenti prestigio e visibilità.
Dopo avere assecondato le logiche di un sistema elettorale perverso nei suoi meccanismi funzionali, i vertici del Botteghino si sono dimostrati per lo più indifferenti alle istanze che venivano quotidianamente avanzate da iscritti e militanti, imponendo candidature per lo più insostenibili anche a discapito di personalità eminenti la cui unica colpa consisteva nel fatto di non essere contigue a determinati centri di potere. Le conseguenze di un simile modus operandi possono essere ravvisate proprio negli avvenimenti che scandirono la folle notte del 10 aprile dello scorso anno, in cui il centro-sinistra rischiò di perdere in maniera rovinosa un’elezione universalmente considerata già vinta.
Favorendo l’inserimento in posti di responsabilità di soggetti provenienti da vari settori della c.d. società civile (come il mondo della scuola, dell’università o delle libere professioni), l’esperienza di Sinistra Democratica può costituire in questo senso il momento iniziale di quella fase di rinnovamento della politica italiana di cui da troppo tempo si auspica l’attuazione.
Rinnovamento, identità, e socialismo gentile: un nuovo treno è pronto a partire su un binario parallelo a quello che governa la folle corsa del Partito Democratico verso il centro moderato. C’è bisogno di sinistra: che questa necessità non resti ancora una volta inevasa.