domenica 10 giugno 2007

“Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini”.
Riflessioni sull’Italia di oggi a partire da un libro di Giulio Sapelli.

di

Manuela Scroccu

“Sai cosa mi sembra l’Italia? Un tugurio i cui proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione,e i vicini, vedendo l’antenna, dicono, come pronunciando il capoverso di una legge: Sono ricchi, stanno bene” (Intervista rilasciata ad Alberto Arbasino, in Saggi sulla politica e la società, I Merididiani Mondadori 1999).


Giulio Sapelli, docente di Storia Economica e Analisi culturale delle organizzazioni presso l’Università Statale di Milano, raccoglie e analizza nel suo libro “Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini”, edito da Bruno Mondadori nel 2005, gli scritti più evidentemente politici e sociologici di Pasolini, operando una selezione accurata tra gli articoli pubblicati dall’intellettuale sul Corriere della Sera e nella rubrica di corrispondenza “Vie nuove”.
Si tratta di un’opera particolare, che discende da un corso universitario di Storia Economica incentrato, come spiega lo stesso autore nella premessa, sul “canto del più alto e dolente interprete del genocidio italico che si produsse dinanzi alla modernizzazione senza sviluppo: Pier Paolo Pasolini”.
Pasolini guardava la realtà come oggi nessuno sa fare: pensava “volando”, con la lucidità visionaria dei poeti. Questo tipo di sguardo oggi si è perso: i giornali sono infarciti di opinionisti e commenti, tutti concentrati sull’ultima sparata di Berlusconi oppure sull’ultimo equilibrismo teorico - tattico di D’Alema.
Pasolini aveva capito una cosa: la politica è un effetto, non una causa. Quello che veramente bisogna analizzare e capire è la metamorfosi antropologica del paese, affondando le mani nel ventre molle e oscuro dell’Italia per riuscire a leggere le radici del reale.
Il nuovo potere è la cultura del consumismo, il nuovo re la televisione. Queste cose le pensava e le scriveva, questo grande intellettuale del nostro tempo, negli anni ’70.
Il paese che Pasolini vedeva, con grande lucidità, era una nazione che da contadina e cattolica, sostanzialmente rurale, si trasformava in qualcosa di diverso, sotto la ricchezza di una pressione improvvisa e di un sistema di valori improntato al consumismo e all’individualismo.
Gli articoli e gli scritti raccolti da Sapelli ci riconsegnano la figura di un intellettuale che ha saputo essere coscienza critica e lucida di quel rapidissimo processo di industrializzazione, correlato all’aumento del reddito e all’espansione dei consumi, che ha interessato l‘Italia del boom economico.
Pasolini vede, prima ancora dell’avvento dei network privati, come la televisione abbia imposto una nuova lingua artificiale, un nuovo modello di riferimento che lui considera nefasto, ovvero quello piccolo – borghese ed edonista che penetra e attecchisce nelle coscienze attraverso il rapporto perverso che questo strumento riesce ad avere con i suoi fruitori - spettatori passivi. Ciò che unifica gli italiani è, in realtà, una moralità edonistica: “il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto”. Nel 1974 Pasolini, scrivendo questa frase, intuì l’immensa capacità pervasiva della televisione. L’Italia che va verso la società dei consumi, né a sinistra né a destra. Comprese che la causa doveva ricercarsi nella peculiarità del processo di industrializzazione nel nostro paese, che non era passato attraverso la creazione di infrastrutture come scuole e ospedali, ma attraverso la realizzazione di un mercato fatto di beni di consumo da sfruttare immediatamente. Ecco che Pasolini parla di preistoria del neocapitalismo, in un mondo che gli appare, proprio attraverso lo specchio deformante ma atrocemente profetico di quello che egli chiama reame televisivo, costruito interamente sull’artificialità.
Questo libro ci restituisce la figura di un Pasolini tragicamente profetico e tristemente non capito da molti suoi contemporanei: un intellettuale che insegna che la politica, quando si separa dalla cultura, finisce di essere la virtù dei migliori e diventa quella degli eguali, relazionandosi con un elettorato che non vota più per chi ritiene il più adatto a governare, ma per chi gli è più simile.
Emblematico, a questo proposito, è il rapporto tra Pasolini e il PCI. Rapporto travagliato e puntellato da numerose incomprensioni.
Sapelli ricorda, però, come l’ultimo Berlinguer ricorra in realtà ad un concetto tipicamente pasoliniano quando decide di porre come punto centrale del proprio agire politico la questione morale. Sono ormai gli anni ’80. Il resto è storia recente: Tangentopoli, Berlusconi, la politica dei salotti televisivi.
La modernizzazione senza sviluppo del titolo assume per Pasolini i contorni di una nuova preistoria dominata dall’alienazione, dal consumismo, dalla cultura che si fa industria dell’intrattenimento, dalla televisione. Noi, che siamo ormai gli abitanti di questa nuova era preistorica possiamo trovare nelle lucide riflessioni di Pier Paolo Pasolini uno strumento straordinario di lettura e di decodificazione di una realtà sempre più complessa i cui nodi, che l’intellettuale già scorgeva nell’Italia del suo tempo, devono ancora essere sciolti.



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