Possibilie che non si capisca che la bontà o meno della tassa sul lusso non c'entra un fico secco? Così come va lasciata nel cassetto la bandiera degli ultras pro o contro Soru? Qui, ha ragione Pietro Ciarlo, c'è in gioco qualcosa di molto più importante, anzi uno dei principi centrali della nostra Costituzione: il principio di eguaglianza. E su questo non si scherza, non sono ammesse superficialità o approcci che sull'aspetto formale facciano prevalere profili sostanziali e di merito.
Anni fa il presidente della Provincia di Milano, una ex cantante passata alla destra, suscitò la giusta indignazione di molti, limitando alcune sovvenzioni scolastiche agli studenti residenti. Una misura venata di un odioso spirito razzista verso gli studenti figli di extracomunitari. Domani la Regione Lombardia potrebbe imporre un tributo a tutti gli italiani residenti da Roma in giù che si rechino in quella operosa città. In una versione classista, il balzello potrebbe imporsi solo a coloro che hanno un alto reddito e il ricavato potrebbe essere destinato ai lavoratori ultracinquantenni privati del loro posto di lavoro.
Come si vede, una volta infranto il principio di eguaglianza, ognuno può sbizzarrirsi a pensare misure di destra o di sinistra che introducono dei distinguo fra cittadini.
Confesso: personalmente ai ricchi (alla Briatore) imporrei non solo la tassa sul lusso, ma anche una delle vecchie corvées (una prestazione personale), ancora esistenti in Italia negli anni '50, e cioè gli chiederei, se vuol trascorrere l'estate da noi, di dissodare, con pala e piccone, uno dei tanti assolati e incolti campi di Gallura. Forse la prestazione contribuirebbe a migliorarne non solo la linea, ma anche l'umanità e la condotta.
Ma che c'entra? Il problema è se questa misura, vigente l'articolo 3 della Costituzione, sia ammissibile. Personalmente, sopratutto sotto questi chiari di luna, in cui la Costituzione è sotto attacco sul fronte sostanziale (e presto lo sarà di nuovo su quello formale), io non baratterei il principio di eguaglianza con nessuna misura, lo proteggerei come il bene più prezioso, come la pupilla degli occhi.
martedì 31 luglio 2007
venerdì 27 luglio 2007
Ho rispetto del lavoro degli altri. Ma qualcosa su questo documento vorrei dirla anch'io. Non lo condivido. Non condivido l'impostazione fortemente verticistica che è stata data all'organizzazione. Questo statuto non ha nulla a che vedere con l'idea di movimento che parte dal basso, coinvolgendo persone della società civile. Che è quanto si è abbondantemente ripetuto fino ad ora. Perché le parole finora sono state bellissime. Ma i fatti, gli atti, gli scripta, che manent e dettano le regole, sono bruttissimi. E tradiscono le premesse e le aspettative. Senza pietà.
Leggendo lo statuto, parte della robusta fiducia che avevo riposto nel progetto di SD mi è venuta a mancare. Comincia a serpeggiare nel mio animo l'orrendo sospetto che tutta l'operazione SD, al pari di quella per il PD, sia un processo di crioconservazione a beneficio di qualche depositario della Verità politica, impegnato soprattutto e tutt'al più a difendere e rinsaldare le posizioni di un qualche suo luogotenente. E bisogna dire che in Sardegna, da questo punto di vista, non ci siamo fatti mancare nulla.
Ma voglio essere ottimista e pensare che siamo ancora in tempo a correggere il tiro. Ricordo perfettamente la giornata del 5 maggio a Roma e il bel clima che tutti abbiamo respirato, allargando bene i polmoni per ossigenarli con la fondata speranza che una politica diversa, una politica migliore fosse possibile. Tutte quelle belle parole sulla rivoluzione culturale politica e sulla partecipazione buttate al vento!
E sì che Salvi l'aveva preannunciato: «Non vi deluderemo!». Quanto ha stonato quella frase con tutto il resto! Come se noi fossimo nelle loro mani, alla stregua di soggetti poco pensanti in attesa del Verbo. Ecco la fine che ha fatto la concezione democratica del movimento … All'apparir del vero tu, misera, cadesti …
Per entrare nel merito della questione, comincio ad analizzare il ruolo degli iscritti, ovvero di tutte quelle persone che, aderendo al movimento, devono farsi, a mio modo di pensare, democraticamente protagoniste del movimento stesso. Ebbene, il ruolo concepito nello statuto per gli iscritti è a dir poco fondamentale: essi hanno il diritto di partecipare all'attività dell'Associazione (… ma non era un movimento?) e, mano al portafogli, annualmente, l'obbligo di versare la quota di iscrizione.
Dette così, senza specificare altro, le parole “attività dell'Associazione”, chissà perché, mi evocano l'immagine del popolo grondante di sudore impegnato ad arrostire salsicce alle feste, o con le bolle ai piedi dopo una bella giornata di volantinaggio; o anche l'immagine della parte un po' più intellettuale del popolo, impegnata in interminabili discussioni, leggermente fine a se stesse, su temi, però, alquanto importanti. Quest'ultima immagine prende concretezza grazie alle delucidazioni di un articolo successivo, dove si dice che territorialmente ci si può persino organizzare in circoli di studio o tematici.
In fondo, che cosa dovrei aspettarmi da persone cresciute politicamente nei DS? L'impostazione mentale è quella. Non si riesce proprio a concepire, se non a parole, il cambiamento vero delle cose.
Poi c'è questo bell'organismo denominato “Comitato Promotore” che è ingessato nelle figure dei delegati nonché de-le-ga-te al congresso DS. Ed è qua che in realtà gli autori dello statuto danno fondo al concetto di “movimento allargato alla società civile” (di più, evidentemente, non si poteva concepire da ex DS): infatti ben un terzo del comitato promotore può essere costituito da personalità varie, a patto che il loro ingresso sia approvato dal comitato promotore stesso, che, almeno nella fase di start-up, è composto dai soliti noti delegati al congresso dei DS.
Io non ce l'ho contro i delegati. Tutte persone di grande spessore. Solo che ho difficoltà a capire, ed è un mio limite, come abbiano fatto ad approvare questo statuto. E il pensiero che queste stesse persone abbiano il delicato compito di decidere se una personalità sia o meno all'altezza di entrare a far parte del comitato promotore, mi lascia perplessa.
Allora, davanti a tutte queste misure di sicurezza, mentre scorro il documento, mi viene da pensare che almeno il comitato promotore, così rigidamente strutturato e concepito, con tutto questo potenziale intellettivo di personalità esterne e, mi permetto di aggiungere, di delegati al congresso dei DS, abbia un certo rilievo politico all'interno del movimento. E invece, come si poteva capire dal nome, il compito del comitato promotore è quello di lanciare la fase di adesione al movimento.
E credo a questo punto di poter cogliere finalmente l'idea davvero innovativa di questo bello statuto (concepito in teoria per regolamentare un movimento politico allargato e di largo respiro), che è quella di scomodare le personalità del mondo civile non per usufruire egoisticamente del contributo che queste potrebbero dare in termini di contenuti e di idee: no! Per metterle molto più generosamente, senza approfittarne troppo, in vetrina. All'unico scopo di recuperare adesioni. Un vecchio trucco di partito, quello di mandare avanti facce spendibili, per allargare i consensi, mentre le fila sono tenute da altri.
Dopo un'organizzazione di questo tipo, che consente senza dubbio di creare un movimento che parte dal basso, perché, non scordiamolo, dà agli iscritti il diritto di partecipare alla non meglio identificata “attività dell'Associazione”, purtroppo ai soci fondatori resta solo il potere di assumere decisioni di carattere statutario e politico.
E non ci deluderanno. Tranquilli!
Per fortuna esiste anche un direttivo. Il direttivo è costituito, oltre che da parlamentari e varie figure istituzionali di SD, anche dai coordinatori delle regioni e delle città metropolitane.
Ora, che dopo lo scempio compiuto ai danni della democrazia nei precedenti articoli, non si spenda neanche una parola su come si diventa coordinatore regionale e di città metropolitane (ovvero se per elezione democratica o per investitura), è fatto puramente casuale. È una svista. Ovviamente. D'altronde si tratta di uno statuto provvisorio. Non sottilizziamo. Chi rappresenta il coordinatore regionale? I soci fondatori e le loro idee agli occhi degli iscritti ovvero gli iscritti e le loro idee agli occhi dei soci fondatori? Mah!
A questo punto dirò una cosa forte, Salvi e tutti i soci fondatori si siedano onde evitare malori: potere al popolo. Non vi deluderà!
Le idee sulla linea politica devono venire dal basso, dalle personalità così come dalla gente comune. Tutti devono potersi esprimere. La sfida è proprio questa. Stimolare la società civile affinché si convinca che il suo contributo e la sua partecipazione sono necessari se si vogliono risollevare le sorti del Paese. Le decisioni di carattere statutario e politico devono essere prese dalle assemblee degli iscritti. I dibattiti sui vari temi non si devono tenere solo tra iscritti chiusi nei circoli; lo sforzo continuo deve essere quello di coinvolgere ogni volta persone nuove. Anche solo trovare il modo di far ciò risolve l'aspetto partecipativo del movimento.
Non è facile, ma dobbiamo tentare con tutte le nostre forze. E soprattutto i dibattiti devono preludere e si devono concludere con la presa di decisioni da pesarsi poi sull'onesto piatto della bilancia democratica sia a livello locale che nazionale. Il cuore pulsante del movimento non possono essere i delegati al congresso dei DS. Abbiate pazienza! Con tutto il rispetto. E invece nello statuto tutto ruota intorno a loro. E intorno ai soci fondatori.
Il cuore pulsante, da cui il movimento può trarre forza, può essere solo la società civile. Anche per sfaldare una volta per tutte la dicotomia elettore-politico. L'elettore deve essere persona politica, persona che si occupa di politica. La partecipazione di tutti comporta l'innesco vitale di un conseguente processo di responsabilizzazione di tutti. Anche l'atto di andare a votare assume un significato diverso, più completo. Mentre la società ha bisogno di una vera e propria rieducazione, riabilitazione all'uso del proprio potere civico, questo statuto la relega ancora una volta all'eterno ruolo di elettrice passiva, stimolata tuttalpiù dal richiamo del nome della personalità di turno.
Perché siamo caduti così in basso? Stavamo andando bene! Insomma questo non è lo statuto di un movimento. Questo è lo statuto di un partitino. Partitino che vola anche piuttosto basso, direi.
Forza signori, ricominciamo daccapo. Dalle parole che ci siamo detti il 5 maggio.
giovedì 26 luglio 2007
di
Ho letto in questi giorni la bella biografia che Marco Gervasoni ha scritto su François Mitterand, l’uomo che riuscì a portare tutta la sinistra francese al governo ma solo dopo averla unita: un progetto ambizioso e quasi impossibile, in Italia e in Sardegna. Il panorama non è esaltante; se penso alla creazione di un gruppo come quello di Sinistra Autonomista in Consiglio Regionale, il quale sembra interessato solo a chiedere un assessore al presidente Soru, mi chiedo: e così che si vuole parlare ai cittadini e alla “sinistra diffusa”? Si costruisce in questo modo l’alternativa al Partito Democratico Sardo? Uscendo sui giornali solo per richiedere posti di governo? Quanto ci servirebbe anche in Sardegna, invece, una sinistra di governo, socialista, democratica, costituzionale, ricca di spirito critico e capace di leggere veramente la società senza opportunismi o luoghi comuni! Come non vedere il potenziale enorme presente nella società sarda, ad esempio la forte richiesta di eguaglianza, che è poi la vera e più profonda ragione che rende alternativa la sinistra dalla destra, come ci ha insegnato Norberto Bobbio?
Eppure basterebbe dare un sterzata forte al modo di fare politica, recuperando una dimensione etica e riducendo i privilegi della classe di governo e di opposizione che provocano sofferenza ed indignazione in un momento in cui la precarietà sta dilaniando la qualità della vita dei cittadini. Mettendo da parte i radicalismi senza politica, come ci hanno insegnato grandi uomini della sinistra europea come Enrico Berlinguer e Olof Palme, e ponendosi seriamente il problema di come affrontare e governare i grandi problemi della società contemporanea, riflettendo su quale debba essere il profilo della cittadinanza, e il nostro essere sardi, nella società globalizzata e come ridisegnare in base a tutto questo obiettivi e pratiche della sinistra.
Solo così si potrà lavorare alla costruzione di una grande forza progressista, saldamente ancorata all’esperienza del socialismo europeo. Dobbiamo farlo perchè la nostra è una realtà in cui si è pericolosamente arrestata la mobilità sociale, proprio come avveniva prima del miracolo economico degli anni Sessanta: chi nasce all’interno di una famiglia benestante rimane tale per tutta la vita, mentre chi proviene da una famiglia di medie o basse condizioni, anche se laureato, rischia di non veder migliorate le propri condizioni rispetto ai propri genitori. Una sinistra capace di rinnovarsi realmente sotto il profilo culturale, programmatico e morale potrà affrontare inoltre la sfida per uno sviluppo diverso e di qualità, a partire dalla questione ecologica e ambientale; quella per la piena parità fra uomo e donna nel mondo del lavoro, in politica e in famiglia; quella per la libertà di ciascuno di poter costruire il proprio futuro affettivo e familiare secondo le proprie aspettative ed inclinazioni, rispettando in maniera laica e non laicista le scelte di tutti.
Senza un grande rimescolamento culturale la sinistra, anche in Sardegna, rischia solo di avere una mera funzione di testimonianza e di farsi stritolare dalle ambizioni particolaristiche coltivate da molti dei suoi attuali, e oramai decisamente vecchi visto che sono gli stessi da oltre venticinque anni, “leader”; è questo il momento di uscire allo scoperto per provare a ridare dignità al socialismo e alla sinistra sarda.
giovedì 19 luglio 2007
Quel 19 luglio del 1992 me lo ricordo bene. Avevo quindici anni e con mia sorella sonnecchiavo di fronte alla televisione di mia nonna, ad Orani. Improvvisamente venne annunciata un'edizione straordinaria. Una frase secca del telegiornale: «Strage in via d'Amelio, trucidati il giudice Borsellino e gli agenti della scorta».
C'era anche una giovane poliziotta sarda dal luminoso sorriso in quel tragico pomeriggio: si chiamava Emanuela Loi. Anche lei fu travolta insieme al giudice dalla tremenda carica di esplosivo preparata da Cosa Nostra contro quello che, eliminato Giovanni Falcone, restava il nemico principale.
La mia generazione è stata segnata da quei fatti perché ha vissuto in diretta lo sgretolarsi della Nazione sotto i colpi di Tangentopoli e di uno stragismo mafioso cruento e senza pietà: come non ricordare le immagini dei funerali degli agenti morti, con la folla inferocita che inveiva contro le autorità venute da Roma?
Certo, come scrive Alexander Stille nel suo bellissimo libro “Nella terra degli infedeli. Mafia e politica”, appena edito da Garzanti, ci fu anche una reazione rabbiosa da parte della società italiana: ma dopo dove è finita?
Perché la magistratura, che si era rivelata allora uno dei corpi sani dello Stato, è stata sottoposta in questi anni a continui attacchi da parte di un potere politico cinico e pronto a sfruttare le proprie risorse in chiave personalistica?
Sono forse sfumati definitivamente quei valori repubblicani incarnati da Borsellino e dagli agenti della sua scorta come l'onestà, il servizio disinteressato per la Patria e i propri concittadini, la dirittura morale come prima regola della vita politica e amministrativa?
Certo, oggi rabbrividiamo dopo aver letto la notizia apparsa ieri sui principali quotidiani di un'indagine in corso da parte della procura di Caltanissetta che starebbe indagando su personaggi dei servizi segreti deviati “stranamente” presenti sul luogo della strage in quell'estate di quindici anni fa; c'era e c'è un'aria strana in questa nazione, e non siamo nell'ultimo importante romanzo di De Cataldo ma nel paese reale.
A maggior ragione, quindi, in un momento in cui si parla tanto di crisi della politica, di un'Italia che non riesce ancora a trovare la sua normalità, è doveroso ricordare la figura di Borsellino e quanto sia importante lottare per un Paese dove la legalità e il senso dello Stato vincano sempre sulla corruzione e sul crimine organizzato.
venerdì 13 luglio 2007
Dopo l’ormai celebre discorso attraverso cui Walter Veltroni ha ufficializzato la propria candidatura alla guida del Partito Democratico, il sindaco di Roma è stato individuato da un’ampia schiera di vecchi barricaderi delle aule parlamentari, ora riciclatisi nel ruolo di riformisti made in USA, come il campione della “buona politica” in grado di smantellare - grazie alla sua concezione “lieve” della dialettica democratica, imperniata sul confronto e non sullo scontro, sulle soluzioni concrete e non sui vuoti proclami ideologici – quella grigia “casta” di potere, privilegi e rendite di posizione attraverso cui l’antipolitica attualmente opprime la società italiana.
Tuttavia, la necessità di traghettare il centro-sinistra fuori dalle secche dell’antipolitica non ha impedito all’ex segretario del PDS di manifestare la propria adesione (rigorosamente virtuale e non effettiva) alla recente proposta di referendum abrogativo della legge elettorale che dei principi dell’antipolitica costituisce una perfetta attuazione.
Alcuni tra i più eminenti costituzionalisti italiani hanno infatti più volte rilevato come il “referendum truffa” sostenuto da Giovanni Guzzetta e dal sempreverde Mariotto Segni, lungi dall’essere finalizzato al perseguimento degli obiettivi della semplificazione della politica e della stabilità del sistema, risulta esclusivamente diretto a rafforzare (attraverso il consolidamento del sistema delle “liste bloccate” e l’attribuzione un elevato premio di maggioranza alla lista che riporta i maggiori consensi, indipendentemente dal numero effettivo di voti conseguiti dalla stessa) il controllo delle segreterie dei partiti più forti sulla vita della res publica, a stabilizzare quindi la già citata rete di clientele, connivenze e rendite di posizione che rappresenta il sostrato fondamentale della famosa “casta” descritta nel libro di Rizzo e Stella.
Premesso che costituisce una macroscopica contraddizione in termini l’assunto in base alla quale il buon esito della campagna referendaria imporrebbe alle Camere un’accelerazione in ordine all’approvazione della riforma della legge elettorale (in una democrazia evoluta non può infatti considerarsi necessario un referendum peggiorativo dell’ordinamento preesistente per indurre il Parlamento ad esercitare la funzione legislativa ad esso attribuita dalla Carta Costituzionale), la causa effettiva di questo primo, macroscopico autogol compiuto dal Sindaco di Roma deve essere ancora una volta ricercata in quell’insieme di contraddizioni e di equivoci su cui si basa la strategia diretta alla creazione del PD, più volte descritto come una forza politica realizzata non già per rispondere alle istanze quotidianamente proposte dal popolo progressista, ma per garantire la conservazione di quella stessa classe dirigente a cui va imputata la responsabilità dell’emorragia di consensi subita dai DS negli ultimi dieci anni.
Tutto ciò premesso, un leader che intende avviare un effettivo processo di cambiamento della politica non può delineare le linee programmatiche che devono caratterizzare la sua azione attraverso mere strategie di compromesso: forte di un consenso quasi unanime in seno alla maggioranza di Governo, Veltroni è tenuto ad impegnare i parlamentari dell’Unione nell’elaborazione di una riforma della legge elettorale in grado di garantire rappresentatività e governabilità, semplificazione e stabilità del sistema.
E in questo senso, la proposta (avanzata da determinati settori della sinistra c.d. “radicale”) diretta all’introduzione di un sistema proporzionale corretto, caratterizzato cioè dalle preferenze individuali in seno alla singola lista e da un’elevata soglia di sbarramento, può costituire una ragionevole base di discussione per avviare questa stagione di riforme, considerato che tale proposta non risulta essere in alcun modo influenzata da quelle logiche di tipo trasversale rispetto alle quali gli attuali sostenitori del movimento referendario hanno dimostrato più volte di non essere estranei.
domenica 8 luglio 2007
Il CSM è l’organo di autogoverno della magistratura, perché i nostri padri costituenti avevano questa strana idea che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dovessero essere garantite rispetto agli altri poteri dello Stato.
Che dice il CSM (presieduto dal Presidente della Repubblica, tanto per ricordarlo)? Il servizio segreto militare, intensamente dal 2001 al 2003 e saltuariamente fino al 2006, spiava i magistrati. Per l’esattezza 203 giudici (47 italiani) di 12 paesi europei. Dice che il SISMI svolse un compito estraneo alle sue attribuzioni e alle sue competenze visto che il suo dovere è vigilare sull’integrità dello Stato e non garantire la stabilità del governo, qualunque sia.
Voglio dire, Nixon è stato crocifisso dalla storia per molto meno.
E che fa Pollari, l’ex capo del Sismi? E’ chiaro, va al TG5 (ça va sans dire) e grida al processo mediatico (già sentito). Si indigna, niente meno.
Ma le carte, generale? Gli archivi segreti ritrovati in via Nazionale? Non esistono, dice il nostro.
Al limite c’è qualche file ritrovato nel computer personale del “dottor Pompa”, che per quanto consta sempre al nostro supergeneralissimo, si limitava a raccogliere dati presi da Internet, libri e giornali. Perché il “dottor Pompa” era analista di fonti aperte e analista internet (mah!).
Se poi ha commesso qualche illecito, signori, io non potevo saperlo, ero solo il capo del Sismi.
Vuoi vedere che ci sono cose più segrete dentro il mio, di computer?
Perché in questo paese anche gli intrighi eversivi finiscono in una farsa, costellata da personaggi improbabili.
E parliamone del dottor Pio Pompa…con quel nome un po’ così, da macchietta dei film di Totò. Uno che in tutte le parti conosciute del globo terraqueo avrebbe potuto fare l’usciere, andandoci larghi l’agente assicurativo (con tutto il rispetto per queste nobili professioni).
In Italia no, in Italia il Pio è un agente segreto, forse, che raccoglieva informazioni per conto del Servizio segreto militare (?) sui magistrati italiani, e non solo, più “scomodi” per il potere con lo scopo di preservare e proteggere il governo allora in carica (che qualche problema con la categoria ce l’aveva, in effetti).
Uno che scrive “individuare nella Pubblica Amministrazione possibili focolai di contrapposizione alla linea governativa”.
Uno che scrive “disarticolare l’attività delle toghe”.
Uno che, nel ringraziare Berlusconi che lo aveva nominato consigliere di Pollari (il nostro signor B. ha sempre avuto buon gusto, non c’è che dire), scrive “sarò, se lei vorrà, il suo uomo fedele e leale”.
Giuseppe d’Avanzo si chiedeva su Repubblica se Pollari, dopo l’attacco stizzito al CSM, debba ancora ricoprire il ruolo di consigliere del governo.
Il governo, dal canto suo, esprime in una nota ANSA la sua rinnovata e piena fiducia nel lavoro dei magistrati. Assicura che verrà fatta chiarezza e che, comunque, l’ufficio “incriminato” di via Nazionale non è più attivo. Grazie, siamo tutti più sereni.
Lasciamocela scivolare alle spalle questa storia tutta italiana, che l’estate è già arrivata e ci sono i servizi televisivi sulle diete, sull’abbronzatura e sulle vacanze intelligenti.
Forse è meglio così, forse è meglio non scoperchiare il pozzo. Forse è meglio non sapere cosa imputridisce sul fondo.
venerdì 6 luglio 2007
di
Gianluca Scroccu
Come italiano ho provato vergogna nell’assistere alla gazzarra messa in atto da Lega Nord e Movimento delle Autonomie in occasione della solenne celebrazione in onore di Garibaldi svoltasi a Palazzo Madama di fronte al Presidente della Repubblica Napolitano e ai due Presidenti di Camera e Senato Bertinotti e Marini. Nonostante decine di bergamaschi abbiano fatto parte della spedizione dei Mille, Calderoli&co. hanno potuto tranquillamente gridare ai quattro venti, e con la consueta finezza, di essere in lutto perché Garibaldi, in combutta con i Savoia, arrecò danni colossali al Nord, mentre il Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo non è voluto esser da meno sostenendo che per colpa del nizzardo il Sud sarebbe stato allontanato dalla prosperità garantita dai Borboni. Per fortuna si tratta di sparute prese di posizione, e lo Stato italiano sta degnamente celebrando l’eroe dei due mondi con iniziative preparate appositamente nell’ambito del bicentenario: si susseguono convegni (uno molto importante si è svolto in Sardegna alcune settimane fa nell’amata Caprera), mostre, ricorrenze e non solo in Italia. Diverse sono poi le pubblicazioni uscite in questi giorni, tra cui si segnalano “Camicie Rosse”, di Eva Cecchinato, edito da Laterza, che ricostruisce la parabola delle camicie rosse dalla nascita del Regno d'Italia fino al 1915, e “Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato” di Mario Isnenghi, edito da Donzelli, dove l’autore ha indagato la genesi e le varie modificazioni coeve e destinate a rimanere sino al Novecento del mito garibaldino. Particolarmente significativa è poi la nuova biografia, sempre edita da Laterza, della storica inglese Lucy Riall e intitolata emblematicamente “Garibaldi l’invenzione di un eroe”. È in particolare da questo volume che esce fuori uno studio accurato del mito di Garibaldi, la forza della sua immagine così popolare e globale nello stesso tempo, inserita all’ interno di un percorso studiato e costruito ad arte, seppur sempre su un sostrato di eventi autentici e concreti, finalizzato a renderlo tra i protagonisti di quella religione civile che avrebbe dovuto cementare lo spirito della neonata nazione italiana. Del resto, come sostiene la Riall, Garibaldi fu un abile controllore della sua immagine, ben consapevole del nesso che già allora andava creandosi tra politica e sistemi di comunicazione di massa, in quella fase in piena espansione. In sostanza, per la storica inglese, Garibaldi deve essere interpretato sotto due chiavi di lettura: la prima è quella relativa alla sua vita concreta di leader politico e militare; la seconda è quella relativa alla crescita del suo mito come capo carismatico e popolare. La forza del Generale fu insomma quella di una grande figura della politica in senso democratico, capace cioè di entrare nel mito e nell’immaginario di tutta la popolazione e non solo di una ristretta elite. Che poi Raffaele Lombardo o Federico Bricolo non accettino questa ricorrenza garibaldina importa poco: noi oggi ricordiamo il bicentenario della nascita di Garibaldi e continueremo a farlo per ricordare un Padre della Patria anche nei prossimi decenni. Dubito invece che si celebreranno in futuro le “imprese” di Giovanni Pistorio, Mario Borghezio o di un Roberto Calderoli; anzi forse sarebbe meglio che cadano quanto prima nell’oblio della storia.
lunedì 2 luglio 2007
di
Federica Grimaldi
Il Referendum Segni-Guzzetta da alcuni è stato definito un referendum-truffa.
Nel linguaggio comune il termine truffa evoca quella situazione nella quale si fornisce a qualcuno una falsa rappresentazione della realtà per convincerlo a cedere un suo diritto.
Io credo che con il referendum Segni-Guzzetta ci si trovi esattamente in questa situazione: i promotori del SI, al fine di convincerci a rinunciare a parte della nostra sovranità popolare, ci rappresentano questa riforma elettorale come la panacea dei mali del nostro paese.
Crisi della politica e crisi delle istituzioni. Questi, ci dicono, sono i mali dell’Italia. Come superarli? Creando una struttura di Governo stabile e forte. Per ottenere questo occorre innanzitutto ridurre a due soli partiti il variegato panorama politico nazionale. Ci chiedono dunque di scegliere in maniera netta, chiara e semplice se votare a destra o a sinistra.
Un cartellone con una settantina di simboli, a rappresentare l’intricata selva del panorama politico italiano, non rassicura chi, stanco di attendere l’ennesima caduta del Governo in carica, desidera solamente stabilità. Due grossi cerchi, uno azzurro e uno rigorosamente rosso, stanno ad indicare invece la sicurezza di chi fa una la scelta giusta! La scelta chiara!
Ma è veramente così? Davvero il referendum Segni-Guzzetta renderà il Governo dell’Italia più stabile? Davvero, come sostengono i promotori del SI, renderà ancora più democratico il nostro sistema elettorale?
Noi di Sinistra Democratica pensiamo che accadrà esattamente il contrario.
Il referendum in questione prevede che la lista o il partito che prenderà più voti avrà automaticamente un premio di maggioranza, pari al 66% dei seggi. I seggi restanti verranno assegnati allo schieramento che ha perso, che, automaticamente, diventerà opposizione. Ci saranno poi una serie di piccoli partiti che fungeranno da vedette. Questi però esisteranno solo se avranno superato lo sbarramento del 4% alla Camera e 8% al Senato.
Ci potremo dunque trovare nella condizione di consegnare il paese ad una lista o ad un partito che, pur avendo una maggioranza relativa, anche molto bassa, avrà una maggioranza assoluta in Parlamento.
La modifica proposta da questo referendum elettorale consentirebbe quindi ad una sola forza politica, cioè quella risultata prima magari con una percentuale del 20%, di aggiudicarsi il premio assicurandosi così oltre il 60% dei seggi. Perfino la legge Acerbo del 1923, prevedeva che il “listone fascista” per poter avere la maggioranza dei seggi dovesse quantomeno raggiungere il 25% delle preferenze. Nella riforma Segni-Guzzetta, invece, non c’è un limite minimo!
Questa riforma elettorale, lungi dal semplificare le cose: le complica. E le complica perché è evidente che per poter vincere i partiti si riuniranno in “listoni” composti in maniera del tutto eterogenea, con l’unico scopo di accaparrarsi quella manciata di voti in più che serviranno a farli essere primi. Ma una volta finite le elezioni si assisterebbe ad una separazione in Parlamento con una evidente conflittualità tra le diverse fazioni. Nessuna stabilità quindi,ma accordi tra stati maggiori per vincere e guidare il paese, ad ogni costo.
La Costituzione, lo ricordiamo, non consente che ci sia alcuna limitazione alla partecipazione di tutti cittadini, anche attraverso i partiti politici, alla determinazione delle scelte politiche del paese.
La decisione invece di eliminare con un colpo di spugna tutti i partiti che non raggiungano una certa percentuale di voti va nella direzione opposta: non tutela le minoranze, ma le cancella, virando pericolosamente verso un svolta autoritaria in cui ai cittadini viene di fatto tolta ogni possibilità di partecipare, attraverso l’esercizio del diritto di voto, alla scelta dei propri rappresentanti.
Sono sotto gli occhi di tutti i deleteri effetti della nota “porcata” di Calderoli. Questa nuova riforma elettorale non solo non ne migliora i difetti, ma ne conserva integra la struttura impedendo agli elettori di scegliere direttamente i loro rappresentanti, che verranno invece selezionati dai vertici dei partiti, riducendo il compito del cittadino sovrano a quello d’una umiliante ratifica, che tutto è tranne che una scelta.
Una delle caratteristiche dei sistemi autoritari, lo ricordiamo, è l’eliminazione di tutte le minoranze, di tutte le voci fuori dal coro.
L’unica e sola voce deve essere quella del Governo. E l’opposizione, si potrebbe obiettare, l’opposizione avrà il compito di vigilare sulla maggioranza di Governo.
La presenza di due soli partiti o schieramenti, che DEVONO ad ogni costo vincere perché ne va della loro possibilità di esercitare in maniera netta il proprio potere, tenderanno sempre di più a voler piacere agli elettori. Per far questo le differenze tra i due schieramenti saranno sempre meno marcate, con il rischio di arrivare al punto di non rappresentare nessuno, se non se stessi e il potere che li sostiene.
L’abbattimento di ogni dialettica interna ai partiti e alle coalizioni di Governo, li ridurrà a contenitori privi di contenuti.
Inoltre, la non rappresentanza degli interessi di categorie deboli, che attualmente vengono assicurate proprio dalla presenza di partiti specifici, significherà l’abbandono da parte dei partiti e dei Governi di sacche di popolazione sempre più ampie e sempre meno rappresentate.
La politica italiana sta attraversando una stagione di secca. È in crisi, sono in crisi le istituzioni, sono in crisi i partiti. Questi non sono più in grado di dire nulla ai loro elettori. Sono organismi evanescenti, coacervi di potere. I costi della politica e la formazione di un ceto che si è enormemente allargato di politici di professione che vive in condizioni di assoluto privilegio, sono temi fondamentali per comprendere le cause della crisi in atto. La politica come professione è frutto dello stato moderno, ma in Italia oramai si è venuta a formare una vera e propria casta.
Se la classe politica rappresenta una sorta di cancrena che divora tutte le risorse del nostro paese, come si può solamente pensare che la soluzione stia nel consegnare proprio nelle mani di un gruppo ristretto di rappresentanti di questa casta tutto questo potere?
Se il problema è che la politica è ormai distante dai cittadini, può definirsi una soluzione ampliare quell’abisso, e anzi utilizzare la sensazione diffusa di distacco per ottenere ancora più distacco e quindi l’assenza di controllo? Perché di questo si tratterebbe.
L’articolo 49 della Costituzione recita che “tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi in partiti per concorrere liberamente a determinare la politica nazionale”.
Tutti i cittadini, quindi. Non solo alcuni. Non solo quelli che hanno, per mezzo di rapporti clientelari mantenuti e coltivati a caro prezzo, la possibilità di creare un partito che ha certi numeri.
Impedire infatti che i piccoli partiti, le piccole liste civiche possano continuare ad esistere, significa limitare pesantemente la libertà e la democrazia del nostro paese.
I partiti politici già da tempo non sono più gli strumenti che i cittadini hanno per esercitare il loro diritto di decidere chi dovrà rappresentarli. Si chiama “democrazia rappresentativa”. Ovvero, le scelte che riguardano l’intera collettività vengono prese non direttamente da coloro che ne fanno parte, ma da persone elette dalla collettività a questo scopo.
Già questo principio è da tempo venuto meno, in un sistema nel quale i candidati vengono scelti non con una leale competizione elettorale, ma dalle segreterie dei partiti.
La riforma renderà partiti ancora più autoreferenziali, e finirà col rendere le istituzioni più deboli e meno trasparenti.
Perché democrazia non sia solo una parola priva di contenuti, occorre che siano rispettati alcuni criteri fondamentali. Oltre che trasparenti le scelte di governo devono anche essere sottoposte a controllo. Un sistema che non ha qualcuno che controlla che le azioni di governo siano fatte nell’interesse della collettività non è un sistema democratico.
domenica 1 luglio 2007
Il discorso con cui Walter Veltroni ha ufficializzato la propria candidatura alla guida del neonato Partito Democratico ha incontrato ampi consensi nell’ambito delle forze politiche che compongono l’attuale maggioranza di governo. Alle centinaia di persone che hanno affollato i saloni del Lingotto, il Sindaco di Roma ha rappresentato con indubbia efficacia i principi su cui si fonda il modello di “Italia che ha in mente”: definitivo superamento delle grandi contrapposizioni ideologiche; partiti “leggeri e più vicini alle esigenze del cittadino”; confronto politico da impostare esclusivamente sui problemi concreti, alla ricerca dell’ideale punto di equilibrio tra sicurezza e solidarietà, flessibilità e tutela del lavoro, modernizzazione e salvaguardia del patrimonio ambientale.
Dinanzi al sogno di Walter, esultano i sostenitori di Rutelli e Fassino, nella convinzione che l’idea veltroniana della “politica lieve” costituisca il percorso utile per creare quella forte base di consenso di cui al momento necessita il nuovo partito; ma applaude anche la c.d. “sinistra radicale”, che individua nell’ex segretario del PDS “l’uomo del dialogo” capace di traghettare senza scossoni la coalizione verso le elezioni del 2011.
Tuttavia - una volta superato il contagioso entusiasmo che deriva dalle parole di un leader il quale, con onestà e convinzione, si accinge ad affrontare una sfida importante ed impegnativa- , dalla relazione proposta al popolo del Lingotto emergono per forza di cose tutti i limiti che possono caratterizzare la posizione del segretario di un partito che (privo di solidi riferimenti culturali e di precisi obiettivi da perseguire) viene costruito esclusivamente sulla base di accordi, compromessi e giochi di potere.
Premesso infatti che i partiti vengono tradizionalmente decritti come gli strumenti utili a garantire la partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese, costituisce una verità inconfutabile l’affermazione secondo cui un partito non può essere da un giorno all’altro inventato nel chiuso di una delle tante stanze dei bottoni: un partito viene creato per dare rilievo politico ai processi evolutivi di cui può costituire oggetto un patrimonio di idee già ben presente in seno alla società in cui il medesimo partito viene a collocarsi.
In questo senso, se la strategia berlingueriana del compromesso storico, il crollo del muro di Berlino e il conseguente approdo, da parte della principale forza della sinistra italiana, ai principi della moderna socialdemocrazia costituiscono le ragioni giustificative della trasformazione del PCI in PDS, nessuna evoluzione ideologica o culturale può essere oggi individuata a fondamento della creazione del PD.
Consapevole di questa realtà, Veltroni rilancia la sua idea del “partito-gazebo”, della forza politica contraddistinta da una struttura agile, idonea a renderla “vicina alle esigenze del cittadino” e lontana dalle obsolete ideologie che hanno attraversato il ‘900. Tuttavia, premesso che già in passato la filosofia del “I care” si rivelò nefasta per i DS - i quali assistettero impotenti al crollo di una roccaforte rossa come Bologna dinanzi all’incedere della marcia trionfale di Guazzaloca-, il sogno del Sindaco di Roma presenta almeno due potenziali contraddizioni: in primo luogo, si è più volte ribadito che il già descritto modello del “partito – gazebo” made in USA costituisce un’evidente anomalia rispetto agli equilibri che governano i sistemi politici del resto d’Europa, considerato che tutti progressisti del Vecchio Continente sono rappresentati, nell’ambito dei paesi di riferimento, da realtà partitiche irreversibilmente ancorate ai valori del socialismo europeo.
In secondo luogo, le peculiarità del sistema – Italia impongono alle forze del centro-sinistra di impostare proprio sul piano delle idee, dell’etica dei principi e dell’incisività delle scelte operative il confronto con quella variegata banda di fascisti in doppio petto, preti invasati e razzisti in camicia verde che risponde agli ordini del Caimano, nella consapevolezza che solo la luce della buona politica può trionfare sulle tenebre dell’antipolitica.
Andando quindi oltre le delicate formule della “politica lieve” e del partito-gazebo, Veltroni ha l’obbligo di coltivare un più realistico sogno: il sogno di ridare all’elettorato progressista entusiasmo e fiducia in quel patrimonio di idee e valori di cui da sempre la sinistra italiana è portatrice, nella consapevolezza del fatto che la forza delle idee costituisce l’essenza stessa della buona politica.
Considera un’aragosta e pensa che una Sardegna migliore può nascere anche da un semplice crostaceo. Mi è venuto da pensarlo dopo una bella chiacchierata con Gianni Usai, già meccanico manutentore alla Fiat, dirigente della Fiom a Torino (mai distaccato dal lavoro, ci tiene a precisarlo), dove vive in prima persona le stagioni degli scioperi e dell’autunno caldo, quelle delle lotte davanti ai cancelli di Mirafiori: anni duri, di impegno e di lotta a cui però si sovrappone la brutta pagina del terrorismo delle Brigate Rosse, che arriva ad uccidere barbaramente Guido Rossa, un operaio e un sindacalista come lui. E allora, nel 1980, Gianni sente il bisogna di tornare in Sardegna, nel Sinis, e di dare una svolta alla sua vita. E diventare pescatore insieme a dei ragazzi con cui costruisce una cooperativa, frutto di uno scambio alla pari: loro gli insegnano il mestiere, lui sfrutta i suoi strumenti politico-culturali e sindacali che permettono di partire da un minimo di organizzazione.I pescatori, in quel periodo, sono in balia di grossisti senza scrupoli, che dettano le regole e si assicurano lucrosi profitti. Un po’ come i feudatari degli stagni di Cabras descritti con straordinaria forza da Peppino Fiori in “Baroni in Laguna”. Fare una cooperativa, racconta Gianni, significa investire e mettersi in gioco, specie quando si parte praticamente da zero: bisogna edificare i locali, comprare le celle frigo, allestire i vivai delle aragoste. E serve soprattutto la volontà di non accontentarti del quotidiano, ma la consapevolezza che per conquistarti un pezzo in questo mondo devi saper guardare al futuro. Nasce così un progetto di ripopolamento delle aragoste a partire da una collaborazione pluriennale con il Dipartimento di Biologia Marina dell’Università di Cagliari. Il pescatore deve essere predatore (altrimenti non prende pesci), ma anche allevatore, o il mare si saccheggia e tutto viene depauperato. E infatti se sino all’85 si catturavano anche 11-12 tonnellate di aragoste, ora si è scesi sui 600 Kg - una tonnellata. I danni maggiori erano creati dal fatto che si prelevava troppo rispetto a quello che il mare consentiva con i suoi normali cicli biologici; specie lo strascico illegale, ma anche la pesca artigianale mal concepita, producevano e producono i danni maggiori.Serviva evidentemente un drastico cambiamento culturale, cercando di far crescere, a partire dai pescatori, una cultura da allevatori. È questo il significato del progetto messo in piedi insieme ai biologi dell’università del capoluogo: le aragoste sotto taglia invece di essere immesse sul mercato si ricollocano, una volta marcate, in un angolo di mare dove la Regione ha autorizzato il divieto di pesca. Un progetto che ha dato risultati; se fai fare alla natura il suo dovere, infatti, il mare si riprende e mette a disposizione dell’uomo le sue grandi risorse.Progetti che hanno bisogno di finanziamenti; la Regione, sul piano politico, si è sempre detta entusiasta ma il riformismo dall’alto tende ad incepparsi di fronte all’inadeguatezza della macchina amministrativa e burocratica. Mi vengono in mente certi documenti d’archivio che ho visionato durante le mie ricerche sul primo centro-sinistra, quello di Moro e Nenni: anche allora si diceva che uno può ipotizzare le riforme migliori, ma se chi deve curarle e accompagnarne la realizzazione dal punto di vista amministrativo non è in grado o non ha la necessaria umiltà si finisce per cadere in una terra di nessuno dove, alla fine, predomina la disillusione.Non è solo un ritardo della politica, sia ben chiaro: esiste anche un freno culturale dell’opinione pubblica che considera il mare come una bellezza o una mera risorsa turistica, rifiutandosi così di guardare a cosa c’è in profondità. Un evidente paradosso, per un’isola come la Sardegna.Certo, come mi dice Gianni, la normativa sulla salvaguardia del mare è molto avanzata, quindi sul piano legislativo non ci sono problemi. Il punto è far sì che le leggi vengano rispettate: una “salvamare” insieme alla “salvacoste”?C’è un gran parlare dei ritardi della sinistra sulla legalità e il bisogno di sicurezza; ma forse anche questa vicenda permette di capire quanto sia necessario osservare le normative quando è a rischio l’interesse collettivo, visto che il mare è di tutti.Anche perché, nonostante tutto, la qualità delle acque sarde è ancora ottima, come dimostra l’esperienza delle aragoste di “Su Pallosu”, che in un habitat tranquillo si riproducono con prolifici ritmi; tutto questo palesa come si debba affermare una nuova etica della responsabilità anche nei riguardi del mare e del suo utilizzo responsabile. Ecco perché sarebbe utile una macchina burocratica adatta ai compiti e specializzata, capace di avere un contatto continuo e stabile con i lavoratori della pesca, su una dimensione orizzontale e con funzionari regionali sui territori che sappiano applicare le leggi (i distretti di pesca potrebbero favorire modalità di lavoro più lungimiranti).L’esempio della partnership con il Dipartimento di Biologia Marina dell’Università di Cagliari è strategico: costa poco, garantisce una collaborazione feconda con il mondo del lavoro che ha bisogno di informazione e formazione continua e in più svolge una importante funzione di controllo sul rispetto del progetto da parte dei pescatori stessi.Del resto è quello che dice anche Stiglitz nei suoi libri sulla necessità di costruire una globalizzazione democratica che funzioni a partire dalla ridefinizione delle modalità con cui vengono messe in agenda le priorità e applicate le regole. La pesca non è una cenerentola, ma una risorsa che crea e conserva posti di lavoro: proviamo anche in Sardegna a mettere la persona al centro dello sviluppo, rendendola responsabile e rispettosa delle regole. Le aragoste saranno contente.