mercoledì 1 agosto 2007
martedì 31 luglio 2007
Possibilie che non si capisca che la bontà o meno della tassa sul lusso non c'entra un fico secco? Così come va lasciata nel cassetto la bandiera degli ultras pro o contro Soru? Qui, ha ragione Pietro Ciarlo, c'è in gioco qualcosa di molto più importante, anzi uno dei principi centrali della nostra Costituzione: il principio di eguaglianza. E su questo non si scherza, non sono ammesse superficialità o approcci che sull'aspetto formale facciano prevalere profili sostanziali e di merito.
Anni fa il presidente della Provincia di Milano, una ex cantante passata alla destra, suscitò la giusta indignazione di molti, limitando alcune sovvenzioni scolastiche agli studenti residenti. Una misura venata di un odioso spirito razzista verso gli studenti figli di extracomunitari. Domani la Regione Lombardia potrebbe imporre un tributo a tutti gli italiani residenti da Roma in giù che si rechino in quella operosa città. In una versione classista, il balzello potrebbe imporsi solo a coloro che hanno un alto reddito e il ricavato potrebbe essere destinato ai lavoratori ultracinquantenni privati del loro posto di lavoro.
Come si vede, una volta infranto il principio di eguaglianza, ognuno può sbizzarrirsi a pensare misure di destra o di sinistra che introducono dei distinguo fra cittadini.
Confesso: personalmente ai ricchi (alla Briatore) imporrei non solo la tassa sul lusso, ma anche una delle vecchie corvées (una prestazione personale), ancora esistenti in Italia negli anni '50, e cioè gli chiederei, se vuol trascorrere l'estate da noi, di dissodare, con pala e piccone, uno dei tanti assolati e incolti campi di Gallura. Forse la prestazione contribuirebbe a migliorarne non solo la linea, ma anche l'umanità e la condotta.
Ma che c'entra? Il problema è se questa misura, vigente l'articolo 3 della Costituzione, sia ammissibile. Personalmente, sopratutto sotto questi chiari di luna, in cui la Costituzione è sotto attacco sul fronte sostanziale (e presto lo sarà di nuovo su quello formale), io non baratterei il principio di eguaglianza con nessuna misura, lo proteggerei come il bene più prezioso, come la pupilla degli occhi.
venerdì 27 luglio 2007
Ho rispetto del lavoro degli altri. Ma qualcosa su questo documento vorrei dirla anch'io. Non lo condivido. Non condivido l'impostazione fortemente verticistica che è stata data all'organizzazione. Questo statuto non ha nulla a che vedere con l'idea di movimento che parte dal basso, coinvolgendo persone della società civile. Che è quanto si è abbondantemente ripetuto fino ad ora. Perché le parole finora sono state bellissime. Ma i fatti, gli atti, gli scripta, che manent e dettano le regole, sono bruttissimi. E tradiscono le premesse e le aspettative. Senza pietà.
Leggendo lo statuto, parte della robusta fiducia che avevo riposto nel progetto di SD mi è venuta a mancare. Comincia a serpeggiare nel mio animo l'orrendo sospetto che tutta l'operazione SD, al pari di quella per il PD, sia un processo di crioconservazione a beneficio di qualche depositario della Verità politica, impegnato soprattutto e tutt'al più a difendere e rinsaldare le posizioni di un qualche suo luogotenente. E bisogna dire che in Sardegna, da questo punto di vista, non ci siamo fatti mancare nulla.
Ma voglio essere ottimista e pensare che siamo ancora in tempo a correggere il tiro. Ricordo perfettamente la giornata del 5 maggio a Roma e il bel clima che tutti abbiamo respirato, allargando bene i polmoni per ossigenarli con la fondata speranza che una politica diversa, una politica migliore fosse possibile. Tutte quelle belle parole sulla rivoluzione culturale politica e sulla partecipazione buttate al vento!
E sì che Salvi l'aveva preannunciato: «Non vi deluderemo!». Quanto ha stonato quella frase con tutto il resto! Come se noi fossimo nelle loro mani, alla stregua di soggetti poco pensanti in attesa del Verbo. Ecco la fine che ha fatto la concezione democratica del movimento … All'apparir del vero tu, misera, cadesti …
Per entrare nel merito della questione, comincio ad analizzare il ruolo degli iscritti, ovvero di tutte quelle persone che, aderendo al movimento, devono farsi, a mio modo di pensare, democraticamente protagoniste del movimento stesso. Ebbene, il ruolo concepito nello statuto per gli iscritti è a dir poco fondamentale: essi hanno il diritto di partecipare all'attività dell'Associazione (… ma non era un movimento?) e, mano al portafogli, annualmente, l'obbligo di versare la quota di iscrizione.
Dette così, senza specificare altro, le parole “attività dell'Associazione”, chissà perché, mi evocano l'immagine del popolo grondante di sudore impegnato ad arrostire salsicce alle feste, o con le bolle ai piedi dopo una bella giornata di volantinaggio; o anche l'immagine della parte un po' più intellettuale del popolo, impegnata in interminabili discussioni, leggermente fine a se stesse, su temi, però, alquanto importanti. Quest'ultima immagine prende concretezza grazie alle delucidazioni di un articolo successivo, dove si dice che territorialmente ci si può persino organizzare in circoli di studio o tematici.
In fondo, che cosa dovrei aspettarmi da persone cresciute politicamente nei DS? L'impostazione mentale è quella. Non si riesce proprio a concepire, se non a parole, il cambiamento vero delle cose.
Poi c'è questo bell'organismo denominato “Comitato Promotore” che è ingessato nelle figure dei delegati nonché de-le-ga-te al congresso DS. Ed è qua che in realtà gli autori dello statuto danno fondo al concetto di “movimento allargato alla società civile” (di più, evidentemente, non si poteva concepire da ex DS): infatti ben un terzo del comitato promotore può essere costituito da personalità varie, a patto che il loro ingresso sia approvato dal comitato promotore stesso, che, almeno nella fase di start-up, è composto dai soliti noti delegati al congresso dei DS.
Io non ce l'ho contro i delegati. Tutte persone di grande spessore. Solo che ho difficoltà a capire, ed è un mio limite, come abbiano fatto ad approvare questo statuto. E il pensiero che queste stesse persone abbiano il delicato compito di decidere se una personalità sia o meno all'altezza di entrare a far parte del comitato promotore, mi lascia perplessa.
Allora, davanti a tutte queste misure di sicurezza, mentre scorro il documento, mi viene da pensare che almeno il comitato promotore, così rigidamente strutturato e concepito, con tutto questo potenziale intellettivo di personalità esterne e, mi permetto di aggiungere, di delegati al congresso dei DS, abbia un certo rilievo politico all'interno del movimento. E invece, come si poteva capire dal nome, il compito del comitato promotore è quello di lanciare la fase di adesione al movimento.
E credo a questo punto di poter cogliere finalmente l'idea davvero innovativa di questo bello statuto (concepito in teoria per regolamentare un movimento politico allargato e di largo respiro), che è quella di scomodare le personalità del mondo civile non per usufruire egoisticamente del contributo che queste potrebbero dare in termini di contenuti e di idee: no! Per metterle molto più generosamente, senza approfittarne troppo, in vetrina. All'unico scopo di recuperare adesioni. Un vecchio trucco di partito, quello di mandare avanti facce spendibili, per allargare i consensi, mentre le fila sono tenute da altri.
Dopo un'organizzazione di questo tipo, che consente senza dubbio di creare un movimento che parte dal basso, perché, non scordiamolo, dà agli iscritti il diritto di partecipare alla non meglio identificata “attività dell'Associazione”, purtroppo ai soci fondatori resta solo il potere di assumere decisioni di carattere statutario e politico.
E non ci deluderanno. Tranquilli!
Per fortuna esiste anche un direttivo. Il direttivo è costituito, oltre che da parlamentari e varie figure istituzionali di SD, anche dai coordinatori delle regioni e delle città metropolitane.
Ora, che dopo lo scempio compiuto ai danni della democrazia nei precedenti articoli, non si spenda neanche una parola su come si diventa coordinatore regionale e di città metropolitane (ovvero se per elezione democratica o per investitura), è fatto puramente casuale. È una svista. Ovviamente. D'altronde si tratta di uno statuto provvisorio. Non sottilizziamo. Chi rappresenta il coordinatore regionale? I soci fondatori e le loro idee agli occhi degli iscritti ovvero gli iscritti e le loro idee agli occhi dei soci fondatori? Mah!
A questo punto dirò una cosa forte, Salvi e tutti i soci fondatori si siedano onde evitare malori: potere al popolo. Non vi deluderà!
Le idee sulla linea politica devono venire dal basso, dalle personalità così come dalla gente comune. Tutti devono potersi esprimere. La sfida è proprio questa. Stimolare la società civile affinché si convinca che il suo contributo e la sua partecipazione sono necessari se si vogliono risollevare le sorti del Paese. Le decisioni di carattere statutario e politico devono essere prese dalle assemblee degli iscritti. I dibattiti sui vari temi non si devono tenere solo tra iscritti chiusi nei circoli; lo sforzo continuo deve essere quello di coinvolgere ogni volta persone nuove. Anche solo trovare il modo di far ciò risolve l'aspetto partecipativo del movimento.
Non è facile, ma dobbiamo tentare con tutte le nostre forze. E soprattutto i dibattiti devono preludere e si devono concludere con la presa di decisioni da pesarsi poi sull'onesto piatto della bilancia democratica sia a livello locale che nazionale. Il cuore pulsante del movimento non possono essere i delegati al congresso dei DS. Abbiate pazienza! Con tutto il rispetto. E invece nello statuto tutto ruota intorno a loro. E intorno ai soci fondatori.
Il cuore pulsante, da cui il movimento può trarre forza, può essere solo la società civile. Anche per sfaldare una volta per tutte la dicotomia elettore-politico. L'elettore deve essere persona politica, persona che si occupa di politica. La partecipazione di tutti comporta l'innesco vitale di un conseguente processo di responsabilizzazione di tutti. Anche l'atto di andare a votare assume un significato diverso, più completo. Mentre la società ha bisogno di una vera e propria rieducazione, riabilitazione all'uso del proprio potere civico, questo statuto la relega ancora una volta all'eterno ruolo di elettrice passiva, stimolata tuttalpiù dal richiamo del nome della personalità di turno.
Perché siamo caduti così in basso? Stavamo andando bene! Insomma questo non è lo statuto di un movimento. Questo è lo statuto di un partitino. Partitino che vola anche piuttosto basso, direi.
Forza signori, ricominciamo daccapo. Dalle parole che ci siamo detti il 5 maggio.
giovedì 26 luglio 2007
di
Ho letto in questi giorni la bella biografia che Marco Gervasoni ha scritto su François Mitterand, l’uomo che riuscì a portare tutta la sinistra francese al governo ma solo dopo averla unita: un progetto ambizioso e quasi impossibile, in Italia e in Sardegna. Il panorama non è esaltante; se penso alla creazione di un gruppo come quello di Sinistra Autonomista in Consiglio Regionale, il quale sembra interessato solo a chiedere un assessore al presidente Soru, mi chiedo: e così che si vuole parlare ai cittadini e alla “sinistra diffusa”? Si costruisce in questo modo l’alternativa al Partito Democratico Sardo? Uscendo sui giornali solo per richiedere posti di governo? Quanto ci servirebbe anche in Sardegna, invece, una sinistra di governo, socialista, democratica, costituzionale, ricca di spirito critico e capace di leggere veramente la società senza opportunismi o luoghi comuni! Come non vedere il potenziale enorme presente nella società sarda, ad esempio la forte richiesta di eguaglianza, che è poi la vera e più profonda ragione che rende alternativa la sinistra dalla destra, come ci ha insegnato Norberto Bobbio?
Eppure basterebbe dare un sterzata forte al modo di fare politica, recuperando una dimensione etica e riducendo i privilegi della classe di governo e di opposizione che provocano sofferenza ed indignazione in un momento in cui la precarietà sta dilaniando la qualità della vita dei cittadini. Mettendo da parte i radicalismi senza politica, come ci hanno insegnato grandi uomini della sinistra europea come Enrico Berlinguer e Olof Palme, e ponendosi seriamente il problema di come affrontare e governare i grandi problemi della società contemporanea, riflettendo su quale debba essere il profilo della cittadinanza, e il nostro essere sardi, nella società globalizzata e come ridisegnare in base a tutto questo obiettivi e pratiche della sinistra.
Solo così si potrà lavorare alla costruzione di una grande forza progressista, saldamente ancorata all’esperienza del socialismo europeo. Dobbiamo farlo perchè la nostra è una realtà in cui si è pericolosamente arrestata la mobilità sociale, proprio come avveniva prima del miracolo economico degli anni Sessanta: chi nasce all’interno di una famiglia benestante rimane tale per tutta la vita, mentre chi proviene da una famiglia di medie o basse condizioni, anche se laureato, rischia di non veder migliorate le propri condizioni rispetto ai propri genitori. Una sinistra capace di rinnovarsi realmente sotto il profilo culturale, programmatico e morale potrà affrontare inoltre la sfida per uno sviluppo diverso e di qualità, a partire dalla questione ecologica e ambientale; quella per la piena parità fra uomo e donna nel mondo del lavoro, in politica e in famiglia; quella per la libertà di ciascuno di poter costruire il proprio futuro affettivo e familiare secondo le proprie aspettative ed inclinazioni, rispettando in maniera laica e non laicista le scelte di tutti.
Senza un grande rimescolamento culturale la sinistra, anche in Sardegna, rischia solo di avere una mera funzione di testimonianza e di farsi stritolare dalle ambizioni particolaristiche coltivate da molti dei suoi attuali, e oramai decisamente vecchi visto che sono gli stessi da oltre venticinque anni, “leader”; è questo il momento di uscire allo scoperto per provare a ridare dignità al socialismo e alla sinistra sarda.
giovedì 19 luglio 2007
Quel 19 luglio del 1992 me lo ricordo bene. Avevo quindici anni e con mia sorella sonnecchiavo di fronte alla televisione di mia nonna, ad Orani. Improvvisamente venne annunciata un'edizione straordinaria. Una frase secca del telegiornale: «Strage in via d'Amelio, trucidati il giudice Borsellino e gli agenti della scorta».
C'era anche una giovane poliziotta sarda dal luminoso sorriso in quel tragico pomeriggio: si chiamava Emanuela Loi. Anche lei fu travolta insieme al giudice dalla tremenda carica di esplosivo preparata da Cosa Nostra contro quello che, eliminato Giovanni Falcone, restava il nemico principale.
La mia generazione è stata segnata da quei fatti perché ha vissuto in diretta lo sgretolarsi della Nazione sotto i colpi di Tangentopoli e di uno stragismo mafioso cruento e senza pietà: come non ricordare le immagini dei funerali degli agenti morti, con la folla inferocita che inveiva contro le autorità venute da Roma?
Certo, come scrive Alexander Stille nel suo bellissimo libro “Nella terra degli infedeli. Mafia e politica”, appena edito da Garzanti, ci fu anche una reazione rabbiosa da parte della società italiana: ma dopo dove è finita?
Perché la magistratura, che si era rivelata allora uno dei corpi sani dello Stato, è stata sottoposta in questi anni a continui attacchi da parte di un potere politico cinico e pronto a sfruttare le proprie risorse in chiave personalistica?
Sono forse sfumati definitivamente quei valori repubblicani incarnati da Borsellino e dagli agenti della sua scorta come l'onestà, il servizio disinteressato per la Patria e i propri concittadini, la dirittura morale come prima regola della vita politica e amministrativa?
Certo, oggi rabbrividiamo dopo aver letto la notizia apparsa ieri sui principali quotidiani di un'indagine in corso da parte della procura di Caltanissetta che starebbe indagando su personaggi dei servizi segreti deviati “stranamente” presenti sul luogo della strage in quell'estate di quindici anni fa; c'era e c'è un'aria strana in questa nazione, e non siamo nell'ultimo importante romanzo di De Cataldo ma nel paese reale.
A maggior ragione, quindi, in un momento in cui si parla tanto di crisi della politica, di un'Italia che non riesce ancora a trovare la sua normalità, è doveroso ricordare la figura di Borsellino e quanto sia importante lottare per un Paese dove la legalità e il senso dello Stato vincano sempre sulla corruzione e sul crimine organizzato.
venerdì 13 luglio 2007
Dopo l’ormai celebre discorso attraverso cui Walter Veltroni ha ufficializzato la propria candidatura alla guida del Partito Democratico, il sindaco di Roma è stato individuato da un’ampia schiera di vecchi barricaderi delle aule parlamentari, ora riciclatisi nel ruolo di riformisti made in USA, come il campione della “buona politica” in grado di smantellare - grazie alla sua concezione “lieve” della dialettica democratica, imperniata sul confronto e non sullo scontro, sulle soluzioni concrete e non sui vuoti proclami ideologici – quella grigia “casta” di potere, privilegi e rendite di posizione attraverso cui l’antipolitica attualmente opprime la società italiana.
Tuttavia, la necessità di traghettare il centro-sinistra fuori dalle secche dell’antipolitica non ha impedito all’ex segretario del PDS di manifestare la propria adesione (rigorosamente virtuale e non effettiva) alla recente proposta di referendum abrogativo della legge elettorale che dei principi dell’antipolitica costituisce una perfetta attuazione.
Alcuni tra i più eminenti costituzionalisti italiani hanno infatti più volte rilevato come il “referendum truffa” sostenuto da Giovanni Guzzetta e dal sempreverde Mariotto Segni, lungi dall’essere finalizzato al perseguimento degli obiettivi della semplificazione della politica e della stabilità del sistema, risulta esclusivamente diretto a rafforzare (attraverso il consolidamento del sistema delle “liste bloccate” e l’attribuzione un elevato premio di maggioranza alla lista che riporta i maggiori consensi, indipendentemente dal numero effettivo di voti conseguiti dalla stessa) il controllo delle segreterie dei partiti più forti sulla vita della res publica, a stabilizzare quindi la già citata rete di clientele, connivenze e rendite di posizione che rappresenta il sostrato fondamentale della famosa “casta” descritta nel libro di Rizzo e Stella.
Premesso che costituisce una macroscopica contraddizione in termini l’assunto in base alla quale il buon esito della campagna referendaria imporrebbe alle Camere un’accelerazione in ordine all’approvazione della riforma della legge elettorale (in una democrazia evoluta non può infatti considerarsi necessario un referendum peggiorativo dell’ordinamento preesistente per indurre il Parlamento ad esercitare la funzione legislativa ad esso attribuita dalla Carta Costituzionale), la causa effettiva di questo primo, macroscopico autogol compiuto dal Sindaco di Roma deve essere ancora una volta ricercata in quell’insieme di contraddizioni e di equivoci su cui si basa la strategia diretta alla creazione del PD, più volte descritto come una forza politica realizzata non già per rispondere alle istanze quotidianamente proposte dal popolo progressista, ma per garantire la conservazione di quella stessa classe dirigente a cui va imputata la responsabilità dell’emorragia di consensi subita dai DS negli ultimi dieci anni.
Tutto ciò premesso, un leader che intende avviare un effettivo processo di cambiamento della politica non può delineare le linee programmatiche che devono caratterizzare la sua azione attraverso mere strategie di compromesso: forte di un consenso quasi unanime in seno alla maggioranza di Governo, Veltroni è tenuto ad impegnare i parlamentari dell’Unione nell’elaborazione di una riforma della legge elettorale in grado di garantire rappresentatività e governabilità, semplificazione e stabilità del sistema.
E in questo senso, la proposta (avanzata da determinati settori della sinistra c.d. “radicale”) diretta all’introduzione di un sistema proporzionale corretto, caratterizzato cioè dalle preferenze individuali in seno alla singola lista e da un’elevata soglia di sbarramento, può costituire una ragionevole base di discussione per avviare questa stagione di riforme, considerato che tale proposta non risulta essere in alcun modo influenzata da quelle logiche di tipo trasversale rispetto alle quali gli attuali sostenitori del movimento referendario hanno dimostrato più volte di non essere estranei.
domenica 8 luglio 2007
Il CSM è l’organo di autogoverno della magistratura, perché i nostri padri costituenti avevano questa strana idea che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dovessero essere garantite rispetto agli altri poteri dello Stato.
Che dice il CSM (presieduto dal Presidente della Repubblica, tanto per ricordarlo)? Il servizio segreto militare, intensamente dal 2001 al 2003 e saltuariamente fino al 2006, spiava i magistrati. Per l’esattezza 203 giudici (47 italiani) di 12 paesi europei. Dice che il SISMI svolse un compito estraneo alle sue attribuzioni e alle sue competenze visto che il suo dovere è vigilare sull’integrità dello Stato e non garantire la stabilità del governo, qualunque sia.
Voglio dire, Nixon è stato crocifisso dalla storia per molto meno.
E che fa Pollari, l’ex capo del Sismi? E’ chiaro, va al TG5 (ça va sans dire) e grida al processo mediatico (già sentito). Si indigna, niente meno.
Ma le carte, generale? Gli archivi segreti ritrovati in via Nazionale? Non esistono, dice il nostro.
Al limite c’è qualche file ritrovato nel computer personale del “dottor Pompa”, che per quanto consta sempre al nostro supergeneralissimo, si limitava a raccogliere dati presi da Internet, libri e giornali. Perché il “dottor Pompa” era analista di fonti aperte e analista internet (mah!).
Se poi ha commesso qualche illecito, signori, io non potevo saperlo, ero solo il capo del Sismi.
Vuoi vedere che ci sono cose più segrete dentro il mio, di computer?
Perché in questo paese anche gli intrighi eversivi finiscono in una farsa, costellata da personaggi improbabili.
E parliamone del dottor Pio Pompa…con quel nome un po’ così, da macchietta dei film di Totò. Uno che in tutte le parti conosciute del globo terraqueo avrebbe potuto fare l’usciere, andandoci larghi l’agente assicurativo (con tutto il rispetto per queste nobili professioni).
In Italia no, in Italia il Pio è un agente segreto, forse, che raccoglieva informazioni per conto del Servizio segreto militare (?) sui magistrati italiani, e non solo, più “scomodi” per il potere con lo scopo di preservare e proteggere il governo allora in carica (che qualche problema con la categoria ce l’aveva, in effetti).
Uno che scrive “individuare nella Pubblica Amministrazione possibili focolai di contrapposizione alla linea governativa”.
Uno che scrive “disarticolare l’attività delle toghe”.
Uno che, nel ringraziare Berlusconi che lo aveva nominato consigliere di Pollari (il nostro signor B. ha sempre avuto buon gusto, non c’è che dire), scrive “sarò, se lei vorrà, il suo uomo fedele e leale”.
Giuseppe d’Avanzo si chiedeva su Repubblica se Pollari, dopo l’attacco stizzito al CSM, debba ancora ricoprire il ruolo di consigliere del governo.
Il governo, dal canto suo, esprime in una nota ANSA la sua rinnovata e piena fiducia nel lavoro dei magistrati. Assicura che verrà fatta chiarezza e che, comunque, l’ufficio “incriminato” di via Nazionale non è più attivo. Grazie, siamo tutti più sereni.
Lasciamocela scivolare alle spalle questa storia tutta italiana, che l’estate è già arrivata e ci sono i servizi televisivi sulle diete, sull’abbronzatura e sulle vacanze intelligenti.
Forse è meglio così, forse è meglio non scoperchiare il pozzo. Forse è meglio non sapere cosa imputridisce sul fondo.
venerdì 6 luglio 2007
di
Gianluca Scroccu
Come italiano ho provato vergogna nell’assistere alla gazzarra messa in atto da Lega Nord e Movimento delle Autonomie in occasione della solenne celebrazione in onore di Garibaldi svoltasi a Palazzo Madama di fronte al Presidente della Repubblica Napolitano e ai due Presidenti di Camera e Senato Bertinotti e Marini. Nonostante decine di bergamaschi abbiano fatto parte della spedizione dei Mille, Calderoli&co. hanno potuto tranquillamente gridare ai quattro venti, e con la consueta finezza, di essere in lutto perché Garibaldi, in combutta con i Savoia, arrecò danni colossali al Nord, mentre il Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo non è voluto esser da meno sostenendo che per colpa del nizzardo il Sud sarebbe stato allontanato dalla prosperità garantita dai Borboni. Per fortuna si tratta di sparute prese di posizione, e lo Stato italiano sta degnamente celebrando l’eroe dei due mondi con iniziative preparate appositamente nell’ambito del bicentenario: si susseguono convegni (uno molto importante si è svolto in Sardegna alcune settimane fa nell’amata Caprera), mostre, ricorrenze e non solo in Italia. Diverse sono poi le pubblicazioni uscite in questi giorni, tra cui si segnalano “Camicie Rosse”, di Eva Cecchinato, edito da Laterza, che ricostruisce la parabola delle camicie rosse dalla nascita del Regno d'Italia fino al 1915, e “Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato” di Mario Isnenghi, edito da Donzelli, dove l’autore ha indagato la genesi e le varie modificazioni coeve e destinate a rimanere sino al Novecento del mito garibaldino. Particolarmente significativa è poi la nuova biografia, sempre edita da Laterza, della storica inglese Lucy Riall e intitolata emblematicamente “Garibaldi l’invenzione di un eroe”. È in particolare da questo volume che esce fuori uno studio accurato del mito di Garibaldi, la forza della sua immagine così popolare e globale nello stesso tempo, inserita all’ interno di un percorso studiato e costruito ad arte, seppur sempre su un sostrato di eventi autentici e concreti, finalizzato a renderlo tra i protagonisti di quella religione civile che avrebbe dovuto cementare lo spirito della neonata nazione italiana. Del resto, come sostiene la Riall, Garibaldi fu un abile controllore della sua immagine, ben consapevole del nesso che già allora andava creandosi tra politica e sistemi di comunicazione di massa, in quella fase in piena espansione. In sostanza, per la storica inglese, Garibaldi deve essere interpretato sotto due chiavi di lettura: la prima è quella relativa alla sua vita concreta di leader politico e militare; la seconda è quella relativa alla crescita del suo mito come capo carismatico e popolare. La forza del Generale fu insomma quella di una grande figura della politica in senso democratico, capace cioè di entrare nel mito e nell’immaginario di tutta la popolazione e non solo di una ristretta elite. Che poi Raffaele Lombardo o Federico Bricolo non accettino questa ricorrenza garibaldina importa poco: noi oggi ricordiamo il bicentenario della nascita di Garibaldi e continueremo a farlo per ricordare un Padre della Patria anche nei prossimi decenni. Dubito invece che si celebreranno in futuro le “imprese” di Giovanni Pistorio, Mario Borghezio o di un Roberto Calderoli; anzi forse sarebbe meglio che cadano quanto prima nell’oblio della storia.
lunedì 2 luglio 2007
di
Federica Grimaldi
Il Referendum Segni-Guzzetta da alcuni è stato definito un referendum-truffa.
Nel linguaggio comune il termine truffa evoca quella situazione nella quale si fornisce a qualcuno una falsa rappresentazione della realtà per convincerlo a cedere un suo diritto.
Io credo che con il referendum Segni-Guzzetta ci si trovi esattamente in questa situazione: i promotori del SI, al fine di convincerci a rinunciare a parte della nostra sovranità popolare, ci rappresentano questa riforma elettorale come la panacea dei mali del nostro paese.
Crisi della politica e crisi delle istituzioni. Questi, ci dicono, sono i mali dell’Italia. Come superarli? Creando una struttura di Governo stabile e forte. Per ottenere questo occorre innanzitutto ridurre a due soli partiti il variegato panorama politico nazionale. Ci chiedono dunque di scegliere in maniera netta, chiara e semplice se votare a destra o a sinistra.
Un cartellone con una settantina di simboli, a rappresentare l’intricata selva del panorama politico italiano, non rassicura chi, stanco di attendere l’ennesima caduta del Governo in carica, desidera solamente stabilità. Due grossi cerchi, uno azzurro e uno rigorosamente rosso, stanno ad indicare invece la sicurezza di chi fa una la scelta giusta! La scelta chiara!
Ma è veramente così? Davvero il referendum Segni-Guzzetta renderà il Governo dell’Italia più stabile? Davvero, come sostengono i promotori del SI, renderà ancora più democratico il nostro sistema elettorale?
Noi di Sinistra Democratica pensiamo che accadrà esattamente il contrario.
Il referendum in questione prevede che la lista o il partito che prenderà più voti avrà automaticamente un premio di maggioranza, pari al 66% dei seggi. I seggi restanti verranno assegnati allo schieramento che ha perso, che, automaticamente, diventerà opposizione. Ci saranno poi una serie di piccoli partiti che fungeranno da vedette. Questi però esisteranno solo se avranno superato lo sbarramento del 4% alla Camera e 8% al Senato.
Ci potremo dunque trovare nella condizione di consegnare il paese ad una lista o ad un partito che, pur avendo una maggioranza relativa, anche molto bassa, avrà una maggioranza assoluta in Parlamento.
La modifica proposta da questo referendum elettorale consentirebbe quindi ad una sola forza politica, cioè quella risultata prima magari con una percentuale del 20%, di aggiudicarsi il premio assicurandosi così oltre il 60% dei seggi. Perfino la legge Acerbo del 1923, prevedeva che il “listone fascista” per poter avere la maggioranza dei seggi dovesse quantomeno raggiungere il 25% delle preferenze. Nella riforma Segni-Guzzetta, invece, non c’è un limite minimo!
Questa riforma elettorale, lungi dal semplificare le cose: le complica. E le complica perché è evidente che per poter vincere i partiti si riuniranno in “listoni” composti in maniera del tutto eterogenea, con l’unico scopo di accaparrarsi quella manciata di voti in più che serviranno a farli essere primi. Ma una volta finite le elezioni si assisterebbe ad una separazione in Parlamento con una evidente conflittualità tra le diverse fazioni. Nessuna stabilità quindi,ma accordi tra stati maggiori per vincere e guidare il paese, ad ogni costo.
La Costituzione, lo ricordiamo, non consente che ci sia alcuna limitazione alla partecipazione di tutti cittadini, anche attraverso i partiti politici, alla determinazione delle scelte politiche del paese.
La decisione invece di eliminare con un colpo di spugna tutti i partiti che non raggiungano una certa percentuale di voti va nella direzione opposta: non tutela le minoranze, ma le cancella, virando pericolosamente verso un svolta autoritaria in cui ai cittadini viene di fatto tolta ogni possibilità di partecipare, attraverso l’esercizio del diritto di voto, alla scelta dei propri rappresentanti.
Sono sotto gli occhi di tutti i deleteri effetti della nota “porcata” di Calderoli. Questa nuova riforma elettorale non solo non ne migliora i difetti, ma ne conserva integra la struttura impedendo agli elettori di scegliere direttamente i loro rappresentanti, che verranno invece selezionati dai vertici dei partiti, riducendo il compito del cittadino sovrano a quello d’una umiliante ratifica, che tutto è tranne che una scelta.
Una delle caratteristiche dei sistemi autoritari, lo ricordiamo, è l’eliminazione di tutte le minoranze, di tutte le voci fuori dal coro.
L’unica e sola voce deve essere quella del Governo. E l’opposizione, si potrebbe obiettare, l’opposizione avrà il compito di vigilare sulla maggioranza di Governo.
La presenza di due soli partiti o schieramenti, che DEVONO ad ogni costo vincere perché ne va della loro possibilità di esercitare in maniera netta il proprio potere, tenderanno sempre di più a voler piacere agli elettori. Per far questo le differenze tra i due schieramenti saranno sempre meno marcate, con il rischio di arrivare al punto di non rappresentare nessuno, se non se stessi e il potere che li sostiene.
L’abbattimento di ogni dialettica interna ai partiti e alle coalizioni di Governo, li ridurrà a contenitori privi di contenuti.
Inoltre, la non rappresentanza degli interessi di categorie deboli, che attualmente vengono assicurate proprio dalla presenza di partiti specifici, significherà l’abbandono da parte dei partiti e dei Governi di sacche di popolazione sempre più ampie e sempre meno rappresentate.
La politica italiana sta attraversando una stagione di secca. È in crisi, sono in crisi le istituzioni, sono in crisi i partiti. Questi non sono più in grado di dire nulla ai loro elettori. Sono organismi evanescenti, coacervi di potere. I costi della politica e la formazione di un ceto che si è enormemente allargato di politici di professione che vive in condizioni di assoluto privilegio, sono temi fondamentali per comprendere le cause della crisi in atto. La politica come professione è frutto dello stato moderno, ma in Italia oramai si è venuta a formare una vera e propria casta.
Se la classe politica rappresenta una sorta di cancrena che divora tutte le risorse del nostro paese, come si può solamente pensare che la soluzione stia nel consegnare proprio nelle mani di un gruppo ristretto di rappresentanti di questa casta tutto questo potere?
Se il problema è che la politica è ormai distante dai cittadini, può definirsi una soluzione ampliare quell’abisso, e anzi utilizzare la sensazione diffusa di distacco per ottenere ancora più distacco e quindi l’assenza di controllo? Perché di questo si tratterebbe.
L’articolo 49 della Costituzione recita che “tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi in partiti per concorrere liberamente a determinare la politica nazionale”.
Tutti i cittadini, quindi. Non solo alcuni. Non solo quelli che hanno, per mezzo di rapporti clientelari mantenuti e coltivati a caro prezzo, la possibilità di creare un partito che ha certi numeri.
Impedire infatti che i piccoli partiti, le piccole liste civiche possano continuare ad esistere, significa limitare pesantemente la libertà e la democrazia del nostro paese.
I partiti politici già da tempo non sono più gli strumenti che i cittadini hanno per esercitare il loro diritto di decidere chi dovrà rappresentarli. Si chiama “democrazia rappresentativa”. Ovvero, le scelte che riguardano l’intera collettività vengono prese non direttamente da coloro che ne fanno parte, ma da persone elette dalla collettività a questo scopo.
Già questo principio è da tempo venuto meno, in un sistema nel quale i candidati vengono scelti non con una leale competizione elettorale, ma dalle segreterie dei partiti.
La riforma renderà partiti ancora più autoreferenziali, e finirà col rendere le istituzioni più deboli e meno trasparenti.
Perché democrazia non sia solo una parola priva di contenuti, occorre che siano rispettati alcuni criteri fondamentali. Oltre che trasparenti le scelte di governo devono anche essere sottoposte a controllo. Un sistema che non ha qualcuno che controlla che le azioni di governo siano fatte nell’interesse della collettività non è un sistema democratico.
domenica 1 luglio 2007
Il discorso con cui Walter Veltroni ha ufficializzato la propria candidatura alla guida del neonato Partito Democratico ha incontrato ampi consensi nell’ambito delle forze politiche che compongono l’attuale maggioranza di governo. Alle centinaia di persone che hanno affollato i saloni del Lingotto, il Sindaco di Roma ha rappresentato con indubbia efficacia i principi su cui si fonda il modello di “Italia che ha in mente”: definitivo superamento delle grandi contrapposizioni ideologiche; partiti “leggeri e più vicini alle esigenze del cittadino”; confronto politico da impostare esclusivamente sui problemi concreti, alla ricerca dell’ideale punto di equilibrio tra sicurezza e solidarietà, flessibilità e tutela del lavoro, modernizzazione e salvaguardia del patrimonio ambientale.
Dinanzi al sogno di Walter, esultano i sostenitori di Rutelli e Fassino, nella convinzione che l’idea veltroniana della “politica lieve” costituisca il percorso utile per creare quella forte base di consenso di cui al momento necessita il nuovo partito; ma applaude anche la c.d. “sinistra radicale”, che individua nell’ex segretario del PDS “l’uomo del dialogo” capace di traghettare senza scossoni la coalizione verso le elezioni del 2011.
Tuttavia - una volta superato il contagioso entusiasmo che deriva dalle parole di un leader il quale, con onestà e convinzione, si accinge ad affrontare una sfida importante ed impegnativa- , dalla relazione proposta al popolo del Lingotto emergono per forza di cose tutti i limiti che possono caratterizzare la posizione del segretario di un partito che (privo di solidi riferimenti culturali e di precisi obiettivi da perseguire) viene costruito esclusivamente sulla base di accordi, compromessi e giochi di potere.
Premesso infatti che i partiti vengono tradizionalmente decritti come gli strumenti utili a garantire la partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese, costituisce una verità inconfutabile l’affermazione secondo cui un partito non può essere da un giorno all’altro inventato nel chiuso di una delle tante stanze dei bottoni: un partito viene creato per dare rilievo politico ai processi evolutivi di cui può costituire oggetto un patrimonio di idee già ben presente in seno alla società in cui il medesimo partito viene a collocarsi.
In questo senso, se la strategia berlingueriana del compromesso storico, il crollo del muro di Berlino e il conseguente approdo, da parte della principale forza della sinistra italiana, ai principi della moderna socialdemocrazia costituiscono le ragioni giustificative della trasformazione del PCI in PDS, nessuna evoluzione ideologica o culturale può essere oggi individuata a fondamento della creazione del PD.
Consapevole di questa realtà, Veltroni rilancia la sua idea del “partito-gazebo”, della forza politica contraddistinta da una struttura agile, idonea a renderla “vicina alle esigenze del cittadino” e lontana dalle obsolete ideologie che hanno attraversato il ‘900. Tuttavia, premesso che già in passato la filosofia del “I care” si rivelò nefasta per i DS - i quali assistettero impotenti al crollo di una roccaforte rossa come Bologna dinanzi all’incedere della marcia trionfale di Guazzaloca-, il sogno del Sindaco di Roma presenta almeno due potenziali contraddizioni: in primo luogo, si è più volte ribadito che il già descritto modello del “partito – gazebo” made in USA costituisce un’evidente anomalia rispetto agli equilibri che governano i sistemi politici del resto d’Europa, considerato che tutti progressisti del Vecchio Continente sono rappresentati, nell’ambito dei paesi di riferimento, da realtà partitiche irreversibilmente ancorate ai valori del socialismo europeo.
In secondo luogo, le peculiarità del sistema – Italia impongono alle forze del centro-sinistra di impostare proprio sul piano delle idee, dell’etica dei principi e dell’incisività delle scelte operative il confronto con quella variegata banda di fascisti in doppio petto, preti invasati e razzisti in camicia verde che risponde agli ordini del Caimano, nella consapevolezza che solo la luce della buona politica può trionfare sulle tenebre dell’antipolitica.
Andando quindi oltre le delicate formule della “politica lieve” e del partito-gazebo, Veltroni ha l’obbligo di coltivare un più realistico sogno: il sogno di ridare all’elettorato progressista entusiasmo e fiducia in quel patrimonio di idee e valori di cui da sempre la sinistra italiana è portatrice, nella consapevolezza del fatto che la forza delle idee costituisce l’essenza stessa della buona politica.
Considera un’aragosta e pensa che una Sardegna migliore può nascere anche da un semplice crostaceo. Mi è venuto da pensarlo dopo una bella chiacchierata con Gianni Usai, già meccanico manutentore alla Fiat, dirigente della Fiom a Torino (mai distaccato dal lavoro, ci tiene a precisarlo), dove vive in prima persona le stagioni degli scioperi e dell’autunno caldo, quelle delle lotte davanti ai cancelli di Mirafiori: anni duri, di impegno e di lotta a cui però si sovrappone la brutta pagina del terrorismo delle Brigate Rosse, che arriva ad uccidere barbaramente Guido Rossa, un operaio e un sindacalista come lui. E allora, nel 1980, Gianni sente il bisogna di tornare in Sardegna, nel Sinis, e di dare una svolta alla sua vita. E diventare pescatore insieme a dei ragazzi con cui costruisce una cooperativa, frutto di uno scambio alla pari: loro gli insegnano il mestiere, lui sfrutta i suoi strumenti politico-culturali e sindacali che permettono di partire da un minimo di organizzazione.I pescatori, in quel periodo, sono in balia di grossisti senza scrupoli, che dettano le regole e si assicurano lucrosi profitti. Un po’ come i feudatari degli stagni di Cabras descritti con straordinaria forza da Peppino Fiori in “Baroni in Laguna”. Fare una cooperativa, racconta Gianni, significa investire e mettersi in gioco, specie quando si parte praticamente da zero: bisogna edificare i locali, comprare le celle frigo, allestire i vivai delle aragoste. E serve soprattutto la volontà di non accontentarti del quotidiano, ma la consapevolezza che per conquistarti un pezzo in questo mondo devi saper guardare al futuro. Nasce così un progetto di ripopolamento delle aragoste a partire da una collaborazione pluriennale con il Dipartimento di Biologia Marina dell’Università di Cagliari. Il pescatore deve essere predatore (altrimenti non prende pesci), ma anche allevatore, o il mare si saccheggia e tutto viene depauperato. E infatti se sino all’85 si catturavano anche 11-12 tonnellate di aragoste, ora si è scesi sui 600 Kg - una tonnellata. I danni maggiori erano creati dal fatto che si prelevava troppo rispetto a quello che il mare consentiva con i suoi normali cicli biologici; specie lo strascico illegale, ma anche la pesca artigianale mal concepita, producevano e producono i danni maggiori.Serviva evidentemente un drastico cambiamento culturale, cercando di far crescere, a partire dai pescatori, una cultura da allevatori. È questo il significato del progetto messo in piedi insieme ai biologi dell’università del capoluogo: le aragoste sotto taglia invece di essere immesse sul mercato si ricollocano, una volta marcate, in un angolo di mare dove la Regione ha autorizzato il divieto di pesca. Un progetto che ha dato risultati; se fai fare alla natura il suo dovere, infatti, il mare si riprende e mette a disposizione dell’uomo le sue grandi risorse.Progetti che hanno bisogno di finanziamenti; la Regione, sul piano politico, si è sempre detta entusiasta ma il riformismo dall’alto tende ad incepparsi di fronte all’inadeguatezza della macchina amministrativa e burocratica. Mi vengono in mente certi documenti d’archivio che ho visionato durante le mie ricerche sul primo centro-sinistra, quello di Moro e Nenni: anche allora si diceva che uno può ipotizzare le riforme migliori, ma se chi deve curarle e accompagnarne la realizzazione dal punto di vista amministrativo non è in grado o non ha la necessaria umiltà si finisce per cadere in una terra di nessuno dove, alla fine, predomina la disillusione.Non è solo un ritardo della politica, sia ben chiaro: esiste anche un freno culturale dell’opinione pubblica che considera il mare come una bellezza o una mera risorsa turistica, rifiutandosi così di guardare a cosa c’è in profondità. Un evidente paradosso, per un’isola come la Sardegna.Certo, come mi dice Gianni, la normativa sulla salvaguardia del mare è molto avanzata, quindi sul piano legislativo non ci sono problemi. Il punto è far sì che le leggi vengano rispettate: una “salvamare” insieme alla “salvacoste”?C’è un gran parlare dei ritardi della sinistra sulla legalità e il bisogno di sicurezza; ma forse anche questa vicenda permette di capire quanto sia necessario osservare le normative quando è a rischio l’interesse collettivo, visto che il mare è di tutti.Anche perché, nonostante tutto, la qualità delle acque sarde è ancora ottima, come dimostra l’esperienza delle aragoste di “Su Pallosu”, che in un habitat tranquillo si riproducono con prolifici ritmi; tutto questo palesa come si debba affermare una nuova etica della responsabilità anche nei riguardi del mare e del suo utilizzo responsabile. Ecco perché sarebbe utile una macchina burocratica adatta ai compiti e specializzata, capace di avere un contatto continuo e stabile con i lavoratori della pesca, su una dimensione orizzontale e con funzionari regionali sui territori che sappiano applicare le leggi (i distretti di pesca potrebbero favorire modalità di lavoro più lungimiranti).L’esempio della partnership con il Dipartimento di Biologia Marina dell’Università di Cagliari è strategico: costa poco, garantisce una collaborazione feconda con il mondo del lavoro che ha bisogno di informazione e formazione continua e in più svolge una importante funzione di controllo sul rispetto del progetto da parte dei pescatori stessi.Del resto è quello che dice anche Stiglitz nei suoi libri sulla necessità di costruire una globalizzazione democratica che funzioni a partire dalla ridefinizione delle modalità con cui vengono messe in agenda le priorità e applicate le regole. La pesca non è una cenerentola, ma una risorsa che crea e conserva posti di lavoro: proviamo anche in Sardegna a mettere la persona al centro dello sviluppo, rendendola responsabile e rispettosa delle regole. Le aragoste saranno contente.
martedì 26 giugno 2007
Sinistra democratica - Cagliari
Conferenza dibattito su
Referendum Segni-Guzzetta:
le ragioni del no.
Quale legge elettorale?
Venerdì 29 giugno
Ore 17.00
Sala Conferenze Banco di Sardegna
Viale Bonaria Cagliari
PROGRAMMA
Presiede
Gianluca Scroccu -Sinistra Democratica
Introduce:
Federica Grimaldi – Collettivo Giustizia Sinistra Democratica
Benedetto Ballero, Università Cagliari
Luigi Concas, Università Cagliari
Andrea Pubusa, Università Cagliari
Segue Dibattito
Sono previsti interventi di esperti,
di esponenti delle associazioni e
delle forze politiche e sindacali.
martedì 19 giugno 2007
Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo incontra i cittadini di Monserrato
La politica riguarda anche te.
Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo
Sta scrivendo una nuova pagina della storia
e della politica in Italia.
Scriviamola insieme
Monserrato
Giovedì 21 Giugno 2007
Casa Foddis, ore 17:30
Mauro Beschi, segreteria nazionale della funzione pubblica CGIL, responsabile Dipartimento welfare e mercato del lavoro
Coordina:
Veronica Marongiu
lunedì 18 giugno 2007
L’assemblea regionale della Sinistra Democratica sarda, svoltasi ad Oristano lo scorso sabato, ha costituito un utile ma anche fortemente dialettico momento di confronto tra le varie anime della politica isolana che si riconoscono nel movimento fondato da Fabio Mussi e Gavino Angius.
In particolare, i contenuti emersi dal dibattito che ha fatto seguito alle relazioni introduttive costituiscono lo spunto per procedere ad alcune riflessioni in ordine ai caratteri che il movimento in questione deve assumere per perseguire con efficacia l’obiettivo di “cambiare la politica unendo la sinistra” individuato dai promotori nella manifestazione nazionale del 5 maggio.
In questo senso, è stata ribadita la necessità di configurare SD come “una realtà che parte dal basso”, come un soggetto politico il quale, attraverso il costante coinvolgimento di iscritti e simpatizzanti nella determinazione delle scelte strategiche fondamentali, possa costituire un punto di riferimento costante per quell’ampia fetta di elettorato progressista che, non riconoscendosi nel progetto del Partito Democratico, non accetta di sottostare alle bieche logiche di potere a cui di fatto l’azione dei partiti tradizionali risulta da anni ispirata. Mai come oggi è infatti necessario recuperare una dimensione “orizzontale” della politica che spezzi l’impianto verticistico che ha finora contraddistinto lo scenario pubblico in Italia e in Sardegna.
I militanti che si sono avvicinati ai DS negli ultimi anni successivi alla vittoria del 1996 hanno infatti avuto la netta impressione di rapportarsi ad una realtà sottoposta ad un lento processo di disgregazione, ad un partito privo di basi ideologiche chiare e per questo incapace di assumere (su temi cruciali quali quello del conflitto di interessi; della giustizia; del lavoro) le scelte radicali di cui il Paese invocava l’attuazione.
Sfruttando appieno i meccanismi di una legge elettorale creata allo specifico scopo di potenziare il ruolo delle segreterie, i vertici del Botteghino non hanno esitato a sacrificare figure politiche di altissimo profilo per sostenere candidati impresentabili, la cui unica ragione di merito poteva essere identificata nella contiguità rispetto a determinati centri di potere.
Le conseguenze di un simile status quo emergono in tutta la loro evidenza dalle vicende attualmente all’attenzione della cronaca: mentre i rapporti tra il quadro di comando della Quercia e ben noti settori del mondo economico assumono ogni giorno contorni più inquietanti, gli elettori del centro-sinistra manifestano il loro disagio attraverso l’astensionismo crescente e il brusco crollo di consensi registrato dall’Ulivo con riferimento ad aree territoriali tradizionalmente definite alla stregua di “roccaforti rosse”.
Premesso che la strategia diretta alla creazione del PD deve considerarsi in realtà finalizzata a celare sotto le bandiere dell’Ulivo e le note di Ivano Fossati quelle che sono le conseguenze nefaste della crisi di un’intera classe dirigente, Sinistra Democratica si trova nella paradossale condizione di dover ricercare proprio nelle radici di questa fase di trionfo dell’antipolitica le linee-guida in base alle quali impostare la sua iniziativa riformatrice.
Per cambiare la politica, per unire la sinistra, occorre infatti che il movimento creato da Mussi ed Angius, accantonate le logiche delle baronie, delle faide interne e delle rendite di posizione che hanno contraddistinto i primi anni di vita della Seconda Repubblica, risulti fedele alla concezione berlingueriana del partito inteso non già come strumento di potere (o come veicolo per il potere), ma come struttura idonea a favorire, coerentemente con quanto previsto dall’art. 3 della Costituzione, la partecipazione dei cittadini alla vita della res publica.
Da questo punto di vista, anche per un movimento che sta nascendo come Sinistra Democratica, è fondamentale inserire la piena trasparenza delle informazioni tra gli aderenti e i militanti, che hanno diritto di formarsi per tempo le opinioni, discuterne in appositi dibattiti aperti e partecipati che consentano di presentare proposte di lavoro, documenti (che non sono mai inopportuni), contributi alla discussione. Deve quindi considerarsi esaurita l’epoca delle assemblee convocate per fungere da mero organo di ratifica di decisioni già predeterminate nel chiuso delle stanze dei bottoni, delle riunioni controllate dai soliti, piccoli feudatari ormai a tal punto compenetrati nella loro (più o meno rilevante) funzione istituzionale per accettare, dopo decenni trascorsi a ricoprire ruoli di primo piano, la triste prospettiva di un’attività politica da svolgere lontano dai palazzi del potere.
Per non parlare della assoluta necessità del rispetto della piena parità di genere, da praticare tanto negli organismi dirigenti, quanto nelle candidature e nella vera e propria conduzione delle battaglie politiche. Solo così si possono scardinare le logiche che hanno condotto all’isterilimento della vita politica dei partiti italiani
Così ragionando, risulta inoltre evidente la necessità di superare - attraverso la previsione di rigorosi limiti al numero dei mandati e l’affermazione di una radicale incompatibilità tra l’assunzione di cariche pubbliche e lo svolgimento di funzioni di coordinamento nell’ambito dei partiti - quella condizione l’appiattimento dei gruppi dirigenti all’interno delle sedi istituzionali su cui si fonda l’esistenza della famosa “casta” a cui è dedicato il recente saggio di Sergio Rizzo e Giovanni Antonio Stella.
Se questi obiettivi verranno perseguiti con coerenza e generosità, il nuovo soggetto politico non risulterà qualificabile come l’ennesimo “partitino” creato per barattare un pugno di voti con posti di sottogoverno, ma come una vera forza innovatrice in grado di favorire, attraverso la riaffermazione di una visione etica della politica, quella fase di coesione tra le forze progressiste di cui da troppo tempo gli elettori invocano il completamento.
domenica 17 giugno 2007
di
Manuela Scroccu
Le africane hanno tanti nomi, perché nei loro paesi averne tanti è segno di buona fortuna, e abiti succinti che non riparano dalle intemperie delle notti invernali e dagli sguardi dei clienti. Le ragazze rumene, polacche e croate portano lunghi stivali e gonne cortissime.
Nina ha gambe lunghe e grandi occhi verdi, luminosi e appena velati dalla malinconia di chi, a 22 anni, ha conosciuto il dolore e l’umiliazione di essere trattata e venduta come un oggetto. Nel suo paese, uno dei tanti dell’Est Europa ridotti in poltiglia mal rigurgitata dal crollo dell’Unione Sovietica, studiava Economia. Quando l’ho conosciuta, ormai libera dai suoi sfruttatori, si preparava a lasciare la Sardegna per iniziare una nuova vita. Alle spalle si lasciava la strada e la verità: quest’ultima, ricostruita in un processo che, attraverso la sua coraggiosa testimonianza ha consentito di sgominare una pericolosa organizzazione criminale che “importava” dall’Est giovani ragazze per sfruttarle nel fiorente mercato della prostituzione.
Becky, invece, è venuta da Benin City con un passaporto nigeriano falso. Occhi neri e duri di chi, acquistata per pochi dollari direttamente nel proprio villaggio, è stata spedita come un pacco postale fino a Roma, poi Napoli, infine imbarcata sulla Tirrenia per Cagliari. Dopo sono bastati pochi chilometri, quelli che separano il porto di Cagliari da viale Monastir. Pochi chilometri per segnare la distanza che separa la speranza di una vita migliore dal precipitare nell’abisso dello sfruttamento della prostituzione. Ha scalato la gerarchia sociale, Becky, diventando “madame” quindi, a sua volta, sfruttatrice di altra carne umana trasportata a buon prezzo fino alle squallide strade delle nostre periferie. Dal carcere, dove si trova e sta scontando la sua pena, probabilmente ripensa alla sua vita e non riesce a comprendere come un giudice l’abbia potuta condannare per aver solo cercato di sopravvivere.
Gli occhi di Alina, invece, quelli non li so descrivere: non si vede il colore dalle foto scattate dalla Polizia Scientifica. Lei non è stata fortunata: i suoi 18 anni, i suoi sogni e le sue speranze sono stati spezzati una sera di luglio: seviziata a morte, il cadavere nascosto in un frigorifero. Il suo aguzzino, il fidanzato che l’aveva portata in Sardegna e l’aveva costretta a prostituirsi, è stato processato e condannato in contumacia. Non l’hanno mai trovato.
Nina, Becky, Alina. Storie comuni a quelle di molte altre: portate in Italia con la promessa di un lavoro, oppure spinte dalla necessità di lasciare paesi devastati dalla guerra o dalla miseria, sbattute sulla strada una volta sbarcate sul suolo italico. Storie simili, diversa è solo la fine.
Nina si è salvata perché ha pianto. Ha pianto, raccontando la sua storia: prima ad un cliente, poi alla proprietaria dello squallido alberghetto dove la costringevano a vivere, poi alla suora del centro di accoglienza che l’ha aiutata a nascondersi, infine al suo avvocato e al pubblico ministero. Per lei il sistema ha funzionato. Ha funzionato una legislazione tra le più efficaci d’Europa, che non solo ha ridefinito (con la legge 228/2003) le fattispecie giuridiche che puniscono la riduzione o il mantenimento in schiavitù o servitù ai fini dello sfruttamento sessuale e la tratta di persone a questo scopo, ma ha predisposto una serie di strumenti di natura sia giuridica (speciali programmi di protezione per le vittime del “trafficking”) che economica (come il fondo per le misure anti tratta, istituito dall’art. 13 legge 228/2003 presso la Presidenza del Consiglio che si occupa di finanziare i programmi di assistenza alle vittime dello sfruttamento).
Becky e Alina, invece, pur nella diversità delle loro storie, fanno parte della categoria delle “sommerse”. Il loro destino è stato diverso, come quello di tanti altre giovani donne: nel migliore dei casi in prigione, trasformate anch’esse in aguzzine; nel peggiore, una vita segnata dalla paura: paura di essere in un paese straniero, paura del freddo, della polizia, della notte, dei clienti, degli sfruttatori. Fino a sparire nel nulla, nella consapevolezza, forse, di essere state, per i propri aguzzini, merce redditizia ma deteriorabile e quindi facilmente sostituibile.
Tale fenomeno complesso, a fronte di una domanda di sesso a pagamento sempre crescente e differenziata, è strettamente intrecciato con una criminalità organizzata feroce e senza scrupoli, che non esita a servirsi di forme di coercizione crudeli per assicurarsi un ricambio sempre fresco di nuove schiave disponibili, per lo più immigrate quasi sempre fatte entrare clandestinamente.
Eppure, oggi non fanno più notizia: sono figure ormai di contorno delle grigie periferie urbane delle nostre città. Le retate e gli arresti, ormai, si meritano un trafiletto nelle pagine di cronaca spicciola. Una parte di loro vive in condizioni di sfruttamento estremo. Molte altre, invisibili ai più, lavorano in piccoli appartamenti, nei night club, negli alberghi. Intrappolate dai debiti contratti per venire in Italia, vengono sottoposte a ricatti e pressioni, sia fisiche che psicologiche, dai propri sfruttatori.
Sembra che la regola sia quella delle “sommerse” e che invece le “salvate” siano un’eccezione.
Con la carne umana si fanno ottimi guadagni: da sempre. Il resto lo fanno un mercato globale sempre più aggressivo e senza regole e, soprattutto, le perduranti ingiustizie del mondo e la povertà: portatrici efficienti e mai stanche di disgregazione sociale e sopraffazione dei deboli.
Nulla a che vedere, quindi, con il moralismo benpensante del buon padre di famiglia che “non può più portare la famigliola felice a fare una passeggiata la sera”. Se la prostituzione non è un reato, nel nostro ordinamento, e i percorsi di vita che portano ad esercitarla sono molteplici e complessi, non riconducibili certamente a sterili giudizi morali o riduttive classificazioni, parlare di sfruttamento della prostituzione, invece, significa puntare un faro contro una nuova schiavitù, una moderna tratta di schiavi, che attraversa i continenti fino al cortile di casa nostra. Significa indagare un fenomeno che interessa nel profondo il tema della salvaguardia dei diritti delle donne e impegnarsi a contrastare questa “rinnovata” schiavitù femminile, cercare di dare delle risposte a quello che, molto spesso, non rappresenta “il mestiere più antico del mondo” ma “la discriminazione più antica del mondo”.
di
Gianluca Scroccu
È un vero paradosso (anche se forse spiega più di tante altre cose i ritardi della sinistra italiana) che a vent'anni dal suo efferato e misterioso assassinio del febbraio 1986 nel nostro paese non sia mai stata pubblicata una biografia di Olof Palme. Per fortuna ora è uscito in libreria il bel saggio di Aldo Garzia "Olof Palme, vita e assassinio di un socialista europeo", edito dagli Editori Riuniti.
Nell’ultimo congresso dei DS il partito si è non a caso diviso proprio sull’appartenenza alla famiglia del socialismo europeo, che peraltro si vorrebbe superare con la creazione dell’effimero ed indefinito Partito Democratico. Questo libro permette di capire tutti i limiti culturali della nostra sinistra, proprio a partire dalla scarsa attenzione riservata all’analisi seria e concreta della storia della socialdemocrazia europea.
L’attualità del pensiero e dell’attività politica di Palme, come sottolinea giustamente Garzia, si riconosce nell’aver declinato in maniera originale un socialismo non appiattito su rigidi schemi economicistici ma aperto ad una riflessione continua sull’importanza della lotta dell’emancipazione dell’uomo e della donna. Proprio sul tema della parità di genere e delle pari opportunità si può misurare uno dei punti più innovativi e moderni della politica di Palme. Con i suoi governi si rafforzò in Svezia quel modello di famiglia per cui i lavoratori devono essere entrambi i coniugi che si dividono equamente le fatiche quotidiane domestiche, a differenza, ad esempio, di un modello assistenziale come quello italiano modellato su un unico percettore di reddito di genere maschile. Palme non a caso si impegnò con forza per tutelare la donna svedese con la stessa copertura legislativa, fiscale ed assicurativa dell’uomo, in modo da garantire un giusto equilibrio capace di assicurare il pieno e libero accesso delle donne al mercato del lavoro e ad importanti carriere senza che questo costituisse un ostacolo alla maternità. Ci sono poi nel libro le sue battaglie sul tema dell’ambiente (fu uno dei primi politici a porsi, negli anni Settanta, il problema dell’esaurimento delle risorse energetiche e della necessità di un nuovo modello di sviluppo eco-compatibile). Palme fu un socialista vero che si chiedeva se può avere un senso ridurre le tasse quando questo significa assottigliare le coperture sociali e sminuire la qualità dei servizi, e che si pose con il “Piano Meidner” il tema del controllo democratico dei profitti e dell’ostacolo alle concentrazioni economiche, specie quelle parassitarie. La sua sfida in economia fu quella di accompagnare la tutela del lavoro e del diritto alla qualità del lavoro con l’espansione dei processi economici e la coesione sociale.
Nel libro si assegna un grande spazio al ruolo del premier svedese nello scenario politico internazionale e al suo impegno strategico imperniato sul concetto di una pace da costruire a partire da una ridefinizione del potere mondiale su un asse di parità tra le nazioni. Per fare questo il leader scandinavo non esitava nell’esternare la propria opinione sulle principali controversie internazionali con posizioni critiche tanto delle tentazioni egemoniche della superpotenza americana che di quella sovietica, essendo convinto che l’emancipazione delle popolazioni del Terzo Mondo dovesse essere intrapresa senza chiedere corrispettivi politici. Grazie a questa sua attività fu capace di dare alla Svezia una straordinaria visibilità internazionale, e questo tanto da Vicepresidente dell’Internazionale Socialista quanto da mediatore per l’Onu. Amico di tutti i movimenti progressisti dei vari continenti, fu un duro e critico avversario della guerra del Vietnam così come dell’intervento sovietico a Praga o di quello in Afghanistan. Un cammino che presenta, non a caso, diversi punti di contatto con l’azione politica di Enrico Berlinguer (in proposito si rimanda ai saggi di Silvio Pons, Raffaele D’Agata, Fiamma Lussana e Claudio Natoli contenuti nel volume appena edito da Carocci “Enrico Berlinguer, la politica italiana e la crisi mondiale”).
Garzia delinea l’uomo politico svedese come un riformatore coraggioso e illuminato che non riteneva di dover mediare sui problemi etici e che non si faceva imbrigliare neanche dalle sconfitte elettorali o dai condizionamenti interni ed internazionali (che come si spiega nel libro furono fortissimi). Del resto non è forse questa la crisi principale della sinistra italiana e cioè quella di aver rinunciato, a favore di parole come efficientismo e governabilità fine a se stessa, ad un pensiero forte ed autonomo capace di coniugare capacità riformatrice nel governo e un costante pensiero critico pronto ad individuare le gravi sperequazioni e le rendite di posizione che rendono il mondo così diseguale?
Olof Palme ebbe la costanza di chi applica una politica coerente tra ciò che si dice e ciò che si fa, chiamando le cose per il loro vero nome e non con i sotterfugi del cinico teatrino politico odierno. Così disse una volta rivolgendosi ai giovani socialdemocratici svedesi: «Se si elimina la volontà con la sua base di teoria e di valori, se si elimina come fonte di energia anche il convincimento emozionale, la politica nei paesi democratici si trasformerà in qualcosa di grigio e triste. […] Il socialismo è un movimento di liberazione. Il nostro obiettivo è liberarci il più possibile dalla pressione delle circostanze esterne, dando la libertà a ciascuna persona di sviluppare se stessa secondo le proprie peculiarità e i propri desideri».
Era un uomo di sinistra conscio che la lotta tra il pensiero socialista e la realtà è il dilemma affascinante ma anche l’unica forza motrice delle politiche socialdemocratiche.
Sapeva bene che non c’è giustizia sociale senza libertà, così come libertà senza giustizia sociale. Ecco perché le sue idee, come dimostra il lavoro di Aldo Garzia, possono offrire molti spunti di riflessione alla sinistra italiana che tenta di intraprendere, seppur tra mille contraddizioni, un percorso unitario difficile e lungo ma necessario per la costruzione di un nuovo modello sociale che tanto sul piano internazionale che su quello nazionale e locale porti avanti una nuova etica dello sviluppo.
giovedì 14 giugno 2007
di
L'Italia ha già vissuto scenari di guerra, in tempi remoti ed anche recenti; ma solo un numero molto ridotto di lettori era nato o ha memoria diretta di quando Cagliari fu bombardata, ma naturalmente ne siamo venuti a conoscenza egualmente. Si usava bombardare una città, i residenti sfollavano nelle campagne (chi poteva), c'era un'etica anche nei bombardamenti. Andate a raccontarlo ai civili di tutte le guerre, andate a chiederlo a chi ha vissuto e subito anche a Cagliari gli effetti di un bombardamento, andate a spiegarlo ai morti di Hiroshima o di Falluja, o del Vietnam, o della Cecenia, o dell'Afghanistan, o in Jugoslavia, o in Nigeria, in Ruanda, cos'è l'etica dei bombardamenti, cos'è un'azione strategica chirurgica, come si comporta una bomba intelligente.
Certo, non ci sono più le guerre di una volta. Che bei tempi, quando eserciti con divisa rossa e blu si accoppavano allegramente in una grande pianura, fra soli militari! Con elefanti, cavalli, cimieri al vento, sciabole scintillanti! Che bei tempi!
Poi, messa da parte la mitologia della "bella guerra" e la sua rappresentazione agiografica, letteraria e cinematografica, bisogna ricordarsi anche degli stupri, delle rapine, dei bottini di guerra, dei genocidi, del terrore, da Gengis Khan a Napoleone, da Giulio Cesare a Hitler, da PolPot a Stalin, da Ramses ad Alessandro, da Bush a Milosevic, da Amin a Saddam...
Chi non ricorda il film "Tutti a casa" con Alberto Sordi? Non si riusciva a capire come i liberatori, i buoni, gli Alleati anglo-americani, prima ti bombardano, e uccidono, poi ti liberano, e bisogna anche festeggiare. Prima gli alleati erano i tedeschi, ed i nemici gli americani; poi gli alleati sono gli americani, ed i tedeschi nemici. Non si riusciva a capire nulla, ti sparavano addosso tutti, come sicuramente non capisce il bambino mutilato ed ucciso dalle mine e dalle cluster-bomb in Somalia, in Cecenia, in Serbia, in Iraq, In Afghanistan, Vietnam, Corea, Darfur, Palestina, ecc. ecc. ecc., dai bombardamenti, dal fuoco amico, dal fuoco nemico, (chi è il nemico?), dal fuoco e dalla spada, che vuol dire sangue, terrore, sofferenza, tragedia, incomprensibilità: per essere liberi, veramente liberi, per essere giusti, veramente giusti, democratici, per battere il tiranno, per vivere meglio, per ottenere tutto ciò bisogna morire, essere mutilati, bisogna veder morire intere moltitudini di amici, di genitori, di figli, veder distrutta la propria casa, avere fame, essere poveri, molto più poveri, e convivere con la disperazione per anni, decenni: in nome di cosa?
A Cagliari, come oggi in Afghanistan, c'era “sa martinicca", così veniva chiamata dai cagliaritani la borsa nera. Alla parola si associava il concetto: martinicca uguale guerra. C'erano gli sciacalli, c'erano i ladri, i signori della guerra, c'erano gli approfittatori, c'era il riaffiorare di tutto il peggio del comportamento umano, c'era l'assenza totale di regole, un lusso di cui ci si può dotare in condizioni di equilibrio, di pace.
Ci si riempie tutti la bocca di pace. Tutti. Tutti noi, che abbiamo la bandiera multicolore appesa al balcone, tutti noi che sentiamo di essere di sinistra, che solidarizziamo con i movimenti per la pace, tutti noi, e tutti voi, che siete credenti in Dio, un qualunque Dio, il quale vuole la pace; tutti noi occidentali, che abbiamo la pancia piena, che guardiamo distrattamente oppure, al contrario, addirittura con commozione le tragedie in diretta, tutti noi che da quando siamo nati non abbiamo sentito la puzza del sangue e della carne maciullata di un padre, di un fratello, di un passante innocente, estraneo; tutti noi, privi della memoria storica, anche la più recente. Che però giudichiamo, con severità, le barbarie altrui. Tutti noi che non ci rendiamo conto, pensando quindi di essere dalla parte del giusto, dalla parte dei "buoni", di non essere in pace, ma complici e quindi artefici delle ingiustizie, pur inconsapevoli. Ma ciò non rappresenta una giustificazione, non può divenire un alibi.
Quando si parla in astratto, per esempio di pace, è facile trovare sintonia e comunione d'intenti. Si, siamo tutti d’accordo, sin quando si tratta di enunciare principi e di buone intenzioni.
Ma come si entra nel merito emergono le differenze, tutto diventa più difficile, ci si deve sporcare le mani: cosa fare per una politica di pace, concretamente, ora ed adesso, in medio oriente, in Africa, in Asia, ecc., in uno scenario dominato da retaggi storici, da lutti, dolore, rancori, differenze culturali secolari, morti accatastati per secoli, in un contesto di economia globalizzata anglo-americana, e di noi occidentali di fatto alleati e di fatto complici, in un mondo che ha l'inglese come lingua unificatrice (sarà un caso?), con le guerre locali ammantate da ideologia, ma originate dalla necessità della detenzione del controllo petrolifero? Delle guerre che sono una sola guerra, ora chiamata "globale", ma che risponde alla stessa logica di sempre; il più forte ha gli eserciti più potenti, in funzione del proprio benessere in spregio delle vite, e culture, e benessere altrui. Le ragioni dei deboli sono deboli, la reazione dei deboli si classifica "radicale", "massimalista", "terrorista", “sovversiva”. Ricordiamo che anche i partigiani erano così classificati. Solo per parlare della recente storia italiana, anche Gobetti, Gramsci, Pertini, a suo tempo, furono incarcerati o uccisi con le stesse argomentazioni.
Se ci si sforza di analizzare freddamente, razionalmente quanto è avvenuto nella storia, si possono trarre grandi insegnamenti e linee di condotta per il presente. Cercando anche di non far prevalere gli aspetti ideologici su quelli meramente pratici. Andiamo a parlare di pace a chi la pace non la conosce, trasmettiamo un filmato del G8 o del Papa in Darfur, o a Kabul. Non potremmo nemmeno trasmettere nulla, colà non c'è nemmeno la corrente elettrica, c'è solo la legge della giungla.
Per analogia, andiamo anche a parlare di politica, di etica, a chi non ottiene risposte sul figlio disoccupato, sul prezzo della roba da mangiare, sulla bolletta della corrente, sul suo futuro.
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Salvare la sinistra: ok
Unirla: va bene
Questa sinistra mondiale, italiana, sarda mi appare in guerra. Una guerra della giungla, in veste di preda. Una guerra di posizione, difensiva. Una guerra non dichiarata, in cui non si voleva entrare, in cui non ci si vuole spendere, in cui non si trovano motivi di entusiasmo e capacità di dare risposte ideali ed al contempo concrete, pensando forse che si potesse vivere di rendita, sfruttando una rendita di posizione; una guerra che avrebbe bisogno di persone dotate di coraggio, di coerenza, una guerra che non ha bisogno di eroi (in ogni caso, non temiate, non ce ne sono!).
In guerra non ci sono più le leggi, le regole, è illusorio appellarsi a queste. Ci sono solo persone con potere, che lo utilizzano al loro servizio, non al servizio collettivo. E ci sono anche quelli, la maggioranza, che questo potere non ce l'hanno. Così come chi aveva messo da parte grandi o piccole quantità di farina faceva la "martinicca", o chi aveva carburante ed una ruspa ne faceva speculazione sui disperati, o chi aveva armi le vendeva a peso d'oro. Poi c'erano i partigiani, quegli "strani". Bisogna proprio essere degli stronzi illusi ed idealisti, ad essere partigiani. Salvo, poi, saltare sul loro carro, appellandosi ai principi della costituzione repubblicana nascente dalla loro opera e dal loro pensiero, ed a cui, in pectore, dicono di essersi tutti ispirati.
Quali sono gli strumenti del potere? Si può condensare il concetto in una sola parola: FORZA. Quella economica, militare, di gestione delle informazioni da elargire e da strumentalizzare.
Questo assioma è valido su vasta scala, nei contesti mondiali in qualunque epoca, e lo possiamo rendere valido anche, per traslazione e per analogia, all'attività politica locale e nazionale.
Abbiamo regole? NO, forse in passato le avevamo, pur poche e confuse, ma efficaci per unire gli intenti. E' necessario darsene di nuove, immediatamente.
Abbiamo forza? NO, forse in passato l'avevamo, almeno quella etica e ideale, anche di consenso elettorale e popolare. E' necessario recuperarla, parlando ed agendo in modo semplice, rigoroso, lineare.
C'è ancora la "martinicca"? SI, ci sono pochi che possiedono lo zucchero e la farina, e ne fanno un'arma di ricatto. E' necessario stroncarla.
Abbiamo una stella polare? SI, come l'avevano i partigiani. Sarebbe interessante sapere se stiamo tutti volgendo lo sguardo verso la stessa stella.
Bisogna avere il coraggio di rischiare, cioè perdere oggi qualcosa di sicuro, per avere qualcosa di migliore, forse, domani.
Alla prossima puntata